Ci sono parole, in questo nostro strano Paese, che – quando vengono pronunciate – hanno il potere di provocare immediati riflessi condizionati di rigetto, di suscitare veementi reazioni contrarie. È il caso di “intervento pubblico”, con riferimento al ruolo dello Stato in economia e, in particolare, nelle attività di carattere industriale. Così avviene che quando qualcuno si azzarda ad adoperarle, queste parole, subito i cantori del liberismo e del laissez-faire levano alti lamenti contro i rigurgiti di statalismo e di dirigismo, chiamando in causa i piani quinquennali, evocando i fantasmi del bolscevismo e della politica economica di stampo sovietico.

Anche di recente, commentando la possibilità di un ruolo più attivo e diretto del governo e delle autorità pubbliche nella gestione del caso Ilva di Taranto, vi è stato chi ha fatto ricorso a questi argomenti. Eppure, se si ragiona con l’animo sgombro da pregiudizi, perché lo Stato non dovrebbe intervenire, anche solo per sovraintendere o vigilare, in quei settori dell’attività economica di particolare rilevanza per gli interessi nazionali?

L’Italia è il secondo produttore europeo di acciaio e tra i primi 10 al mondo, l’industria siderurgica è uno dei punti di forza del nostro apparato produttivo. Se a Taranto l’Ilva entra in quella tremenda spirale di problemi giudiziari, occupazionali, produttivi, ambientali, sanitari, in cui oggi si trova, lo Stato ha non solo il diritto, ma il dovere di intervenire. La questione, infatti, non riguarda solo la famiglia Riva, né solo i dipendenti dell’Ilva e dell’indotto. Da quegli impianti provengono prodotti necessari per interi settori, dalle costruzioni all’automobile, dagli elettrodomestici ai trasporti. La continuità nella produzione interna di questa materia prima e la regolarità delle forniture ai clienti, il cui venire meno causerebbe seri problemi di competitività e di costi aggiuntivi per le imprese, costrette a comprare acciaio dai produttori esteri, sono questioni d’interesse generale per l’Italia, in quanto foriere di possibili conseguenze negative, tanto sulla bilancia dei pagamenti quanto in termini di minore ricchezza prodotta.

È evidente, quindi, la necessità che la dimensione pubblica giochi in questa partita un ruolo di primo piano. Un ruolo che lo Stato ancora non gioca, se è vero, come purtroppo ci dicono i numeri e i dati dell’intero settore siderurgico, che tutto l’acciaio italiano è in crisi di assetto e di prospettiva, una crisi agevolata anche dall’assenza di scelte industriali definite dall’autorità pubblica. Quella stessa autorità che all’estero interviene, e anche pesantemente, come dimostra il pressing operato dal governo di Berlino per evitare conseguenze negative sugli stabilimenti tedeschi della ThyssenKrupp, dopo l’acquisizione dell’acciaieria di Terni da parte della multinazionale finlandese Outokumpu. O come evidenzia la forte iniziativa del governo francese, che è giunto perfino a prospettare la nazionalizzazione dell’impianto di Florange, dove il colosso ArcelorMittal vorrebbe chiudere due altiforni e licenziare 600 dipendenti.

Se quindi il governo italiano decidesse di convocare gli “stati generali” della siderurgia italiana e definire i provvedimenti legislativi e industriali per il futuro di Piombino, Taranto, Terni, Genova, Trieste – la spina dorsale dell’acciaio nazionale – farebbe solo il bene del paese. Del resto, che ci siano settori e produzioni di carattere strategico e vitale per gli interessi generali dell’Italia è testimoniato dal ruolo che lo Stato, attraverso le sue diverse articolazioni, svolge in aziende come Eni ed Enel, decisive per lo sviluppo della politica energetica; o, mediante Finmeccanica, in comparti come l’industria militare, l’aerospazio, le alte tecnologie. Cosa che – senza suscitare scandalo alcuno – avviene ovunque, perché non esiste grande paese che non voglia orientare e controllare i gangli più sensibili e delicati delle proprie attività industriali.

La differenza tra l’Italia e le altre nazioni industrializzate è che queste continuano a considerare come ambiti di propria diretta competenza alcuni settori industriali, dai quali l’Italia si è completamente ritratta. Così, qui da noi siamo giunti a un regime di sostanziale monopolio Fiat nell’auto, con Sergio Marchionne che, agevolato da questa posizione non dominante, ma di unico protagonista, si sente autorizzato a fare il bello e il cattivo tempo su produzioni, stabilimenti, contratti, diritti. Negli Usa, invece, si è ritenuto che il presidente Obama abbia fatto il suo dovere intervenendo con risorse del bilancio pubblico per evitare il crack della Chrysler. E non si può non ricordare come nel 2008, all’inizio della grande crisi, mentre Berlusconi faceva il cucù e raccontava barzellette nei vertici europei, due capi di governo conservatori come Sarkozy e Merkel convocavano i capi delle imprese automobilistiche per definire, in cambio dei milioni di euro investiti, interventi protettivi delle produzioni, degli impianti e dei posti di lavoro nei loro paesi. Con, in più, il rientro nei confini nazionali di buona parte della componentistica a suo tempo delocalizzata nelle aree a basso costo.

Iniziative e azioni, di carattere economico quanto industriale, che hanno ragioni e consenso sociale in contesti nei quali il ruolo pubblico è attivo e considerato indispensabile. Se il governo francese controlla il 15 per cento delle azioni della Renault, è ovvio che voglia non solo valorizzare economicamente tale partecipazione, ma anche avere voce in capitolo sui disegni industriali e sulle loro conseguenze sociali. E se il land della Bassa Sassonia resiste alle pressioni delle vestali di Bruxelles e si tiene ben stretto il controllo di oltre il 20 per cento di azioni Volkswagen, esercitando quando serve quella golden share che conferisce speciali poteri nelle decisioni dell’impresa, significa che il modello funziona e porta vantaggi a tutti, come le fortune di quella casa automobilistica dimostrano.

L’Italia avrebbe molti motivi per riprendere una discussione non ideologica sull’insieme di questi temi, cioè su come – senza tornare alle degenerazioni dello Stato gestore – definire un ruolo e una funzione del pubblico in economia. Potrebbe farlo decidendo, per fare un esempio, che il Fondo strategico italiano presso la Cassa depositi e prestiti (quello stesso fondo che in questi giorni si sta occupando di preservare l’italianità di un gioiello industriale come Ansaldo Energia) diventi il braccio operativo delle politiche industriali pubbliche. E contribuire così – la Cgil da parte sua lo sta facendo lanciando il suo Piano del lavoro – a gettare le basi per il superamento della crisi. “Il nostro obiettivo più importante è quello di far tornare la gente a lavorare.

Non è un problema irrisolvibile se affrontato con saggezza e coraggio. Lo possiamo realizzare in parte attraverso assunzioni governative dirette, affrontando l’impegno come faremmo con un’emergenza bellica, ma al contempo grazie a queste assunzioni, portando a termine progetti di grande rilevanza per stimolare e riorganizzare l’uso delle nostre risorse naturali”. A pronunciare queste parole, nel 1933, fu il presidente americano Franklin Delano Roosevelt. Era l’inizio del new deal, dopo la crisi del ’29 e la grande depressione. In pochi lo hanno ricordato, ma tra i tanti interventi di quel poderoso piano di ripresa degli Usa ci fu anche la creazione nel 1938 di Fannie Mae, l’azienda pubblica specializzata nei mutui per l’acquisto di abitazioni. Dopo la privatizzazione, le degenerazioni della finanza e dell’economia di carta avevano portato Fannie Mae, insieme all’omologo Freddie Mac, sull’orlo del fallimento. Il salvataggio è stato opera di Obama, con un intervento pubblico che ha impedito un disastro finanziario per le casse federali e i cittadini. Un intervento pubblico, appunto.