Appalti al massimo ribasso, esternalizzazioni, chiusure di attività, licenziamenti: alla radice dello sciopero dei call center organizzato dai sindacati oggi, 21 novembre, c’è la somma di situazioni lavorative e aziendali drammatiche, ma anche un’assenza legislativa che le ha consentite. Sempre più aziende, infatti, chiudono le attività di call center e licenziano. C'è un vuoto normativo che consente di creare crisi occupazionali che riducono poi il salario dei lavoratori, e i livelli di diritti.

La soluzione per la questione degli appalti al massimo ribasso nel settore dei call center è europea. I sindacati chiedono da mesi al governo di applicare in maniera compiuta la direttiva 2001/23/Ce “concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di essi”. Il fine è di garantire la continuità occupazionale, evitando la delocalizzazione delle imprese dove il costo del lavoro è minore. È l’unico modo, inoltre, per preservare condizioni leali di concorrenza sul mercato internazionale, insieme alla qualità delle prestazioni offerte.

La direttiva prevede il mantenimento dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto nel passaggio dall'impresa committente alla cosiddetta cessionaria, quella a cui, nel nostro caso, si affida lo svolgimento di un servizio. Secondo la norma in questione, il committente può anche cambiare fornitore, ma l’operatore “segue” l’appalto, in modo da assicurare una qualità stabile del servizio e da non perdere il posto di lavoro. Insomma, occorre porre l’accento sulle persone, se si intende creare un reale sviluppo all’interno dei territori.

Inoltre, il trasferimento dalla “cedente” alla “cessionaria” non può essere motivo di licenziamento. La continuità dei rapporti di lavoro va mantenuta. I dipendenti devono seguire la commessa. Il committente può anche decidere di cambiare fornitore, ma ciò non deve incidere sulle condizioni degli operatori. Questi non possono perdere il posto, né vedere modificate le condizioni descritte dal contratto. Chi ha iniziato a gestire materialmente un servizio deve continuare a farlo. In tal modo non solo si preserva la tenuta occupazionale, ma si sposta la competizione dal prezzo alla qualità. Molti paesi europei hanno già recepito tali indicazioni all'interno delle loro legislazioni, attraverso diverse modalità.

Gli altri paesi europei si sono già mossi. In Belgio, in caso di successione di appalti, il datore di lavoro è obbligato a tentare, “per quanto possibile, di realizzare la continuità dei contratti di lavoro”. Ciò in un contesto in cui “il nuovo appaltatore ha l'obbligo di offrire il 75 per cento dei posti di lavoro ai dipendenti dell'impresa che ha perso l'appalto”. Il Regno Unito prevede che “tutti i diritti, le facoltà e gli obblighi del cedente derivanti dal contratto o vincolati ad esso, siano trasferiti al cessionario, anche nei casi di cambio di appalto”. In Svezia, infine, si dispone che “i contratti di lavoro e le condizioni in vigore al momento del trasferimento seguano i dipendenti nel rapporto di lavoro con il nuovo datore”.

L'Italia ha in parte recepito la direttiva, ma in maniera distorta. In linea di principio, il lavoratore conserva i propri diritti nel passaggio dal committente al fornitore. Ma nel momento in cui il contratto d'appalto viene rinnovato, se l'azienda perde la commessa, con ogni probabilità il dipendente non conserverà il posto. Occorre dunque intervenire per adeguare la nostra normativa a standard più adeguati e rispettosi.

Sta già succedendo
Mentre la vertenza che vede contrapposte British Telecom (BT) e Accenture con 262 licenziamenti non ha ancora trovato una soluzione, E-Care ha annunciato la volontà di procedere alla chiusura della sede milanese con il licenziamento di oltre 500 persone. Nelle prossime settimane, poi, la chiusura delle gare di Enel, Comune di Roma e il continuo ribasso delle tariffe praticato dai clienti porterà all’avvio di ulteriori centinaia di dipendenti.

I lavoratori lo definiscono un gioco al massacro, e naturalmente non sono loro a divertirsi. Nel settore dei call center chi guadagna davvero sono i committenti che appaltano i servizi. E se in Italia non conviene, si rivolgono a fornitori esteri. In Serbia, Romania, Croazia, Tunisia. Nel nostro paese gli operatori dei call center sono circa 80 mila. Di questi, 45 mila, i cosiddetti inbound (cioè quelli che ricevono telefonate), forniscono prestazioni a soggetti sia pubblici che privati. Sono addetti subordinati, per il 70 per cento donne, in prevalenza a part-time. Gli outbound, invece, in tutto 35 mila, si occupano di vendite telefoniche e lavorano a progetto. Il contratto di riferimento è quello delle telecomunicazioni.

La legge finanziaria del 2007 portò alla stabilizzazione di 26 mila dipendenti, ponendo un freno a fenomeni di sfruttamento ampiamente diffusi. Ma nel giro di pochi anni la tendenza a regolarizzare si è completamente ribaltata, tanto da spingere i sindacati a indire lo sciopero per protestare contro un meccanismo che scarica sulle spalle dei lavoratori una competizione durissima.

Interessante è anche la geografia dei call center. La maggior parte di essi si trova nelle regioni del Mezzogiorno. Terminate le agevolazioni del 2007, molte aziende hanno infatti spostato le loro sedi dal Nord al Sud, dove potevano usufruire degli sgravi derivanti dalla legge sugli incentivi per l’assunzione dei lavoratori disoccupati (L. 407/90) e dai fondi sociali europei. Si calcola che la legge 407 del 1990 abbia permesso un risparmio del 31 per cento, mentre i fondi sociali europei addirittura dell’87,5 per cento. Tutto ciò, però, non è bastato a garantire stabilità. In un settore dove il 70 per cento del fatturato è rappresentato dal costo del lavoro, la competizione non può che essere al ribasso. Oltre che con le delocalizzazioni, le aziende sane devono fare i conti con ampie sacche di lavoro nero. In questo gioco anche lo Stato ci rimette.

Negli ultimi tre anni, fra cassa integrazione, mobilità, mancati versamenti dei contributi a Inps e Inail e improprio utilizzo dei fondi sociali europei, abbiamo perso circa 480 milioni di euro, tutti andati a beneficio dei committenti. “Tutto ciò senza aver creato neanche un posto di lavoro in più; anzi, con la prospettiva di perderne parecchi. C’è solo un modo per frenare questa emorragia: adeguare la nostra normativa a quella europea, così da impedire il dumping salariale – dice Michele Azzola, segretario nazionale della Slc Cgil e responsabile delle telecomunicazioni –. Dobbiamo tornare a competere sulla qualità e a garantire continuità occupazionale. Gli altri paesi dell’Unione hanno già recepito i dettami europei. L’Italia conserva un inspiegabile ritardo”.

Ci sono aziende dove, nonostante le difficoltà, permane il rispetto per il ruolo dei lavoratori. In altre invece tutte le tensioni si riversano sui dipendenti che vengono minacciati, umiliati e sottoposti a pressioni psicologiche. La competizione selvaggia sui prezzi si riflette in maniera negativa sull’organizzazione del lavoro.