Pubblicata su Facebook il 25 maggio 2012.

Novant'anni fa, a Sassari, nasceva Enrico Berlinguer. Era il figlio maggiore di Mario, avvocato, a sua volta giovanissimo deputato sardo nel 1924 (lista antifascista capeggiata dal giolittiano Cocco Ortu, l'ultimo sussulto di una democrazia che si avviava verso la sua sconfitta definitiva), poi alto commissario alla epurazione dopo la caduta del regime, più tardi autorevole parlamentare azionista e socialista. La famiglia era stata da sempre coinvolta nella politica democratica di Sassari. Il nonno di Enrico, suo omonimo, aveva fondato con altri il gruppo dei radicali sassaresi, dando seguito a una più antica tradizione mazziniana che si perdeva negli anni del Risorgimento. Ed era stato tra gli azionisti fondatori del battagliero giornale "La Nuova Sardegna", a lungo bandiera delle idee progressiste in un'isola nella quale le grandi trasformazioni del Novecento sembravano presentarsi come qualcosa di lontano e indistinto, soffocate dalla separazione dal "continente" e dal dominio di ceti proprietari privi di un'idea del futuro. In quel clima (un misto di cultura, politica, idee innovative) sarebbe cresciuto Enrico, frequentando (pare senza essere mai un primo della classe) il già mitico Liceo Domenico Alberto Azuni, lo stesso nel quale aveva studiato Antonio Segni e - nella breve parentesi sassarese (il padre era stato contabile all'altro Liceo cittadino, il Canopoleno), il futuro capo del Pci Palmiro Togliatti.

Giovane dirigente nel Pci di Togliatti
Una battuta acida di Giancarlo Pajetta suggerì più tardi che Enrico, presentato dal padre a Togliatti, si fosse iscritto giovanissimo "alla direzione del Pci". Non fu propriamente così, perché vi fu l'apprendistato sassarese, nelle concitate settimane successive alla liberazione, e poi - soprattutto - la partecipazione ai cosiddetti moti del pane, un sommovimento non solo spontaneo del quale i giovani comunisti guidati da Enrico ebbero la guida politica (si era ai primi del 1944) e che valse al ragazzo di buona famiglia il primo, non proprio breve soggiorno in carcere. Da allora in poi la "carriera" si svolse tutta fuori da Sassari, per quanto si mantenessero a lungo e tenacemente vincoli familiari e di amicizia.

Dopo il carcere Enrico raggiunse il padre a Salerno, ove aveva ancora sede il governo Badoglio, e qui avvenne l'incontro con Togliatti, che di Mario era stato compagno di scuola. Cosa piacque di Enrico, tanto da conquistare la difficile simpatia del "Migliore"? Probabilmente quel suo carattere tipicamente serio, taciturno (sebbene non privo di ironia), e la predisposizione alla fatica del lavoro politico. Sicché, fatte le prime prove accanto ai dirigenti massimi del Pci, e dopo un breve periodo come vicesegretario in Sardegna, Togliatti lo richiamò a Roma. Nel 1949 fu nominato segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana, carica che avrebbe mantenuto sino al 1956, e l'anno seguente divenne segretario della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica, l'associazione internazionale dei giovani.

Anni decisivi, di viaggi, contatti, amicizie nella grande rete del comunismo internazionale. Un'esperienza tutta dall'interno del comunismo sovietico e al mondo complicato delle burocrazie politiche dell'Est. Accompagnata però dalla compenetrazione profonda nella "diversità" del comunismo togliattiano, formalmente (e forse anche sostanzialmente) stalinista ma al tempo stesso attento alla lezione postuma di Gramsci, proprio in quegli anni edito con sapiente regia dallo stesso Togliatti.

Il comunista Berlinguer
Si stenterebbe a trovare in questa fase le tracce di un Berlinguer "eretico" (del resto l'aggettivo non gli calza neanche per i periodi successivi, e certo non gli sarebbe piaciuto). Enrico fu, anzi, essenzialmente l'uomo dell'organizzazione e dell'apparato, secondo una regola subito appresa nel corso del suo intenso apprendistato. Mai presentarsi a una iniziativa senza aver prima tracciato lo schema del discorso; mai senza avere una perfetta padronanza dei problemi in discussione; attenzione esasperata alla "macchina" del partito; cura quasi maniacale dei dettagli.

C'era, in tutto questo, un'identificazione senza riserve nel modello del quadro comunista così come si era venuto formando nel corso della lunga lotta clandestina e poi si era trasferito nella politica a cielo aperto del dopoguerra. La diversità comunista (che Berlinguer avrebbe impersonato e rivendicato) era anche quel modo assoluto, senza riserve, quasi religioso per non dire monacale, di dedicarsi alla militanza politica, quasi come a un lavoro "scientifico"; e sul piano del costume quel modello di vita intimamente controllato che fu comune a una o due generazioni almeno.

Nel ritratto di famiglia di quel gruppo dirigente colpiscono alcuni elementi comuni: l'abbigliamento "borghese" o meglio piccolo-borghese - specie di chi ricopre incarichi pubblici e istituzionali - : giacca e cravatta sempre; ma al tempo stesso la trascuratezza pragmatica del vestire (quelle giacche di Enrico sempre spiegazzate); la vita privata irreprensibile (sino a toccare in alcuni casi punte di moralismo); l'abitazione modesta; il costume di vita senza ostentazioni di lusso. Qualcuno ha ricordato la vacanza stintinese di tutte le estati di Enrico e della sua famiglia (si era sposato nel 1957): un ombrellone piantato personalmente nella spiaggia comune, una semplice sdraio. Lui che era (lo era la sua famiglia) il vero "padrone" di Stintino nonché il capo del più grande partito comunista dell'Occidente, come un bagnante qualunque. A me capitò di incontrarlo per caso (ero un ragazzo) in aeroporto, su un aereo per la Sardegna. Seduto tra gli altri ad aspettare, con la sola compagnia dell'immancabile Tatò, la sigaretta tra le labbra (allora si poteva fumare nelle zone fumatori), il fascio dei giornali. Uno qualunque.

Alla guida del partito
Nominato, nel corso del XII congresso, vice-segretario nazionale (durante la segreteria di Luigi Longo), sembrò che Berlinguer dovesse rappresentare la continuità rassicurante della leadership. Un salto generazionale che aveva il vantaggio di elidere tra loro i "cavalli di razza" di sempre (gli Amendola, gli Ingrao, in parte i Pajetta) e che avrebbe in fondo garantito tutti che tutto sarebbe stato come prima.

Non era esattamente così. Nel 1969 Berlinguer guidò una delegazione del partito ai lavori della conferenza internazionale dei partiti comunisti a Mosca; e in quella occasione, trovandosi in disaccordo con la "linea" sovietica , a sorpresa rifiutò di sottoscrivere la relazione finale. La presa di posizione, inattesa quanto "scandalosa", fu memorabile: tenne il discorso decisamente più critico in assoluto fra quelli che mai leader comunisti abbiano tenuto a Mosca, rifiutando tassativamente la "scomunica" dei comunisti cinesi (eppure Togliatti a suo tempo li aveva decisamente attaccati) e rinfacciando a Leonid Brežnev che l'invasione sovietica della Cecoslovacchia (che definì espressivamente la "tragedia di Praga") aveva solo evidenziato le radicali divergenze affioranti nel movimento comunista su temi fondamentali come la sovranità nazionale, la democrazia socialista e la libertà di cultura. Un segnale. Forse non del tutto raccolto all'epoca.

Nel 1972, ammalatosi Longo, Berlinguer fu eletto segretario del Pci. Si apriva adesso il periodo di massima espansione del partito, favorito anche dall'esaurirsi della Dc, logoratasi come partito continuativamente al governo dal '48. Nel 1976 il Pci toccò il 34,4% sfiorando la maggioranza dei voti.

Il golpe cileno e il compromesso storico
Nel '73, intanto, con una celebre intervista immediatamente successiva al golpe cileno, Berlinguer, ragionando sulla oggettiva presenza dei due blocchi (il tema era del resto quello tipico anche della riflessione togliattiana: come affermare il Pci quale partito di governo, in un mondo diviso in campi contrapposti, essendo dalla parte del campo occidentale), aveva lanciato il compromesso storico, cioè una organica politica di alleanza con la Dc che avrebbe trovato in Aldo Moro il suo più acuto e intelligente interlocutore.

Anni difficili anche quelli, aperti dalla grande esplosione del '68 (rivolta studentesca) e '69 (rivolta operaia), dalla trasformazione del sistema e della società italiana (venivano a compimento le riforme, per quanto contrastate, del primo centrosinistra, ma come sempre nella storia d’Italia senza che fossero governate e indirizzate) e dalla profonda rivoluzione nel costume, segnata dall'irrompere sulla scena dei giovani. Berlinguer tenne il timone del Pci con prudenza (alcuni dicono eccessiva), favorendo il cambiamento ma senza mai dimenticare l'esistenza di un'Italia moderata che a quelle trasformazioni non partecipava e che le subiva. In certo senso interpretava così, all'insegna di un estremo realismo, quello che era stata l'antica percezione del Togliatti del dopoguerra circa la caratteristica contraddittoria dello sviluppo italiano. Che aveva, sì, aperto nuove prospettive al progresso e all’avanzata delle classi popolari, ma al tempo stesso non aveva distrutto le sacche più arretrate presenti nel profondo della società nazionale, le quali dunque esercitavano sul movimento in atto un'azione di freno, ne condizionavano e spesso deviavano l’espansione.

Per non dire dei condizionamenti internazionali, che le stragi degli anni 1969-78 (l’anno del rapimento di Moro) misero tragicamente in evidenza. Si spiega così la ritrosia di Berlinguer a impegnarsi sul fronte del divorzio (poi, costretto, lo fece e convintamente, sino alla vittoria nel referendum), o la sua persistente attenzione al tema dei cattolici e della Chiesa. Quando poi emerse in tutta la sua pericolosità mortale la minaccia terroristica, Berlinguer ebbe la conferma delle sue preoccupazioni. E assunse verso quella deriva tragica un atteggiamento di assoluta intransigenza che si sarebbe manifestato al massimo grado nelle settimane terribili del rapimento e poi dell'assassinio di Moro.

Gli ultimi anni
Da allora, scomparso "l'uomo che dall'altra riva ci ha capiti" (la citazione è da Treves, e si riferisce al Giolitti del primo Novecento, ma si attaglia bene ai rapporti tra Berlinguer e Moro), iniziò un processo regressivo, nel quale Berlinguer fu semmai l'interprete dell'eurocomunismo, della grande battaglia ideale contro la pretesa di Mosca di condizionare i partiti "fratelli", del tentativo di allentare dall'interno i vincoli della dipendenza ideologica del Pci. Memorabile la sua esile figura a Mosca, davanti all'intero gotha del comunismo sovietico e internazionale, mentre pronunciava uno dei discorsi più belli dell'intera sua vita di leader politico comunista.

Memorabili anche le immagini, drammatiche, della sua morte. Una morte epica, sul campo, da antico eroe, lui che aveva esordito nelle vesti borghesi del burocrate senza qualità, che era sembrato il segretario senza personalità. Il mito che ne è derivato, un mito che sentono oggi anche quelli come me che non militarono nel suo partito (tutt’al più lo votarono) e non ne condivisero interamente le idee (nella mia giovinezza extraparlamentare Berlinguer era un “revisionista”), è giustamente cresciuto, man mano che a quella generazione di giganti è succeduta quella dei nani.

Non sono più i tempi oggi di Enrico Berlinguer, dei blocchi internazionali, del comunismo sovietico, del compromesso storico. Tutto è profondamente cambiato. Ma resta la nostalgia per quel modo serio, coerente, intransigente sino ad essere testardo, di interpretare la politica. Sia concesso un abbandono sentimentale, alla fine di questo breve ritratto: mi piace – da sardo – pensare che quella regola del vivere, quel sistema di valori, Berlinguer lo traesse almeno un po' dalle sue radici nella Sassari torpida ma non troppo dei suoi vent’anni.

Professore di Storia delle istituzioni politiche e Storia dell'amministrazione pubblica alla Sapienza di Roma. Deputato Pd.