“Per uscire dalla crisi occorrono politiche diverse, che costruiscano le proprie fondamenta sugli investimenti in innovazione, ricerca e formazione. Occorre una politica industriale nuova, in cui i salari crescano in base al livello di inflazione. Ma soprattutto occorre un piano di investimenti, ambizioso (250 miliardi l’anno) ma necessario, come quello proposto dal sindacato europeo nel suo manifesto per le elezioni del Parlamento Europeo, in cui si chiede a chiare lettere un nuovo corso per l’Europa”. Chi parla è il segretario confederale della Ces, Luca Visentini, che pone l’accento sul messaggio lanciato nella manifestazione promossa dai sindacati europei lo scorso 4 aprile a Bruxelles, che ha visto scendere in piazza contro l’austerità oltre 50 mila persone.

Rassegna Come hanno reagito le istituzioni europee a una mobilitazione così imponente?

Visentini Dopo la manifestazione abbiamo incontrato Herman Van Rompuy, a cui abbiamo ribadito le preoccupazioni e le richieste del sindacato europeo. Il presidente del Consiglio europeo si è detto d’accordo con le ragioni della protesta e ha condiviso la nostra idea di un’Europa più sociale, ma è rimasto convinto che per avviare un percorso virtuoso non si possa abbandonare la politica del rigore e si debba prima passare attraverso riforme strutturali. Il Consiglio si dimostra ancora arroccato sulle posizioni di un nucleo ristretto di paesi, che nonostante tutto continua a perseguire una strategia neoliberista e nazionalista. È la politica portata avanti dalla Germania, dalla Gran Bretagna, dall’Olanda e dai paesi del Nord Europa, a cui il resto dei paesi si piega.

Rassegna Gli altri 20 paesi non avrebbero la forza per ribaltare la situazione?

Visentini Ci sono paesi apertamente contrari alle politiche di austerità, come Italia, Spagna e Grecia, solo per citarne alcuni. Il problema è che non hanno mai rappresentato un vero asse. In cinque anni non sono stati in grado di elaborare una proposta alternativa. È questo il dato più allarmante: da una parte c’è un gruppo di paesi che sa cosa vuole, dall’altra si riscontra un enorme deficit di analisi dei progressisti, il cui mainstreaming finisce per essere identico a quello dei popolari. Si tratta di una grave crisi di identità.

Rassegna Una crisi di identità che riguarda anche l’Italia?

Visentini In Italia c’è molta confusione. Da una parte il Pd appoggia le nostre proposte, dall’altra Renzi strizza l’occhio a Cameron, il quale non perde occasione per attaccare il modello sociale dell’Unione Europea.

Rassegna I sindacati europei hanno pubblicato un Manifesto in cui indicano la rotta da seguire nella prossima legislatura. Ci sono forze politiche che più di altre sembrano sostenere le vostre proposte?

Visentini La piattaforma elettorale del gruppo dei socialdemocratici (famiglia europea di cui fa parte il Pd, ndr) coincide in gran parte con le nostre proposte. Anche il programma di Tsipras è in consonanza con il Manifesto, ma la sua lista a mio avviso ha un limite: Tsipras non è candidato al Parlamento Europeo. Avrebbe dovuto candidarsi per misurarsi sul serio con questa sfida. In compenso la distanza che ci separa dal gruppo dei liberaldemocratici (Alde) è considerevole. In questi cinque anni hanno promosso norme antisociali e deregolamentazione. Il commissario europeo per gli affari economici e monetari, Olli Rehn, è stato il peggior paladino dell’austerità. All’interno del Partito popolare europeo (Ppe), invece, esistono diverse sfumature. Non mancano alcuni punti di contatto, soprattutto con la matrice cristianocattolica.

Rassegna Votando per un partito, gli elettori indicheranno indirettamente il presidente della Commissione. I sindacati europei, visto la consonanza con il programma dei socialdemocratici, stanno con Schulz?

Visentini Più con Schulz che con Juncker. Chi sostiene Schulz vuole superare le politiche di austerità e investire sullo sviluppo. Chi sostiene Juncker, in sostanza, vuole proseguire sulla strada del rigore, anche se in realtà le posizioni sono molto più complesse. Per esempio, da presidente del Parlamento Europeo Schulz ha imposto compromessi sul Fondo sociale europeo e sulle direttive in materia di immigrazione. Mentre Juncker, da presidente dell’Eurogruppo, ha criticato le politiche di austerità. Il vero rischio è che il presidente della Commissione Europea non venga scelto tra i candidati presentati dai partiti europei, ma ancora una volta dai capi di Stato e di governo dei paesi membri, attraverso una mediazione tra le cancellerie. Se questo accadesse, la credibilità dell’Europa ne uscirebbe molto indebolita. Il Parlamento europeo, unica istituzione scelta dai cittadini, è stato sempre messo in un angolo, con un grande sbilanciamento verso la Commissione e il Consiglio, che rappresentano gli Stati membri e non l’Europa. Per rilanciarsi l’Unione deve andare nella direzione opposta. Le forze politiche all’interno del Parlamento devono essere protagoniste del cambiamento in direzione di un’Europa più sociale, che preveda una revisione del fiscal compact e un rilancio degli investimenti anche da parte di istituzioni come la Banca Europea degli Investimenti (Bei). Quest’ultima dovrebbe finanziare chi ha bisogno e non i paesi già forti e le multinazionali.