Scendi dal 32, t’infili tra l’Olimpico e la Farnesina, poi su per Monte Mario, entri e la foto che hai di fronte ti sembra sia stata scattata lì, alle Officine Farneto, ma quando ancora erano una fabbrica. Poi capisci subito che non è così, che quelle strutture metalliche sono di un altro ambiente, che l’immagine ti racconta un’altra storia. È un gioco di rimandi, Lucha, la mostra che un giovane artista salentino, Sandro Mele – la regia è della Fondazione Volume! –, ha allestito in questo spazio della capitale.

Un gioco di rimandi innanzitutto perché la vicenda di una fabbrica di ceramiche, l’argentina Zanon ridenominata Fasinpat – Fábrica Sin Patrones – dagli operai in autogestione, viene evocata negli ambienti di un vecchio stabilimento romano, dedicato anch’esso un tempo alla produzione di ceramiche, e trasformato oggi in uno spazio per esposizioni. Un gioco di rimandi perché poi da qui, da questa coincidenza, Mele parte per farci viaggiare tra mappe temporali e luoghi geografici, economici, se si vuole politici, tra loro assai diversi.

Lucha – le cinque lettere piastrelle, legno e ferro che compongono la parola ben visibili all’ingresso della mostra – ci riporta a una storia – secondo dei rimandi – che sembra nascere nell’Italia di oggi. Un’azienda con un’indubbia capacità produttiva e un mercato vitale – si trova nel distretto del Neuquén, nord della Patagonia – che nel 2000 il padrone, Luis Zanon, un argentino di origini venete protagonista di mal riuscite speculazioni, decide di chiudere. L’anno seguente il proposito diventa realtà, gli operai si ribellano, occupano lo stabilimento e riprendono il lavoro, dando vita nel 2004 alla cooperativa Fasinpat e reclamando il possesso della fabbrica. Dopo una lunga vertenza ottengono nel 2009 il riconoscimento legale del diritto che si sono conquistati e la formalizzazione di una nuova proprietà – collettiva – che ha saputo affermare il prodotto sul mercato, assicurando un reddito stabile alle 470 famiglie degli occupati diretti e agli oltre mille lavoratori impiegati nell’indotto.

“Perché non si può fare anche qui, di fronte a tante fabbriche che chiudono?” si chiede e ci chiede Mele, volto solare e antico di ragazzo del sud che sembra appena uscito, anno 1969, da una porta di Mirafiori. Una domanda che il nostro cinismo quotidiano magari ci farà considerare un po’ ingenua – ce la ripete anche Raffaele Gavarro, il sapiente curatore della mostra –; un interrogativo che ci conduce comunque all’oggi, all’urgenza di trovare risposte alla crisi qui e ora, senza aspettare un autunno, quello del Cavaliere, sempre annunciato sempre rimandato.

Superiamo la barriera di mattonelle che grida Lucha, entriamo nello spazio grande della sala. Un suono continuo, ossessivo, e una accanto all’altra, sulla parete di fronte all’ingresso, alcune foto-ritratto – la cera le trasforma in veri e propri dipinti: Mele, Accademia delle Belle Arti a Venezia, nasce pittore – ci mostrano gli interni, il lavoro, la fabbrica. Spostando lo sguardo a sinistra, l’inizio temporale dell’intera vicenda: tre video in sincrono – erano stati portati alla biennale veneziana del 2009 –, immagini procurate direttamente dai lavoratori della ex Zanon che documentano la lotta, mescolate a materiali di repertorio, insieme il parlato dei filmati e, continuando nel percorso, diffuso da un megafono collegato a un lettore di cd, ancora un documento sonoro a chiudere il circuito di voci e ritmi che narrano la storia e – nuovo rimando – ripropongono il rumore di fondo della fabbrica.

Rumore di fondo ossessivo e alienante: il lavoro, anche se non è più “sotto padrone”, non cessa di essere fatica e straniamento. Ma è tuttavia, in questo caso, lavoro che ha saputo darsi concrete risposte. E Mele ce lo ricorda mettendo in asse con il megafono che ci dice di Fasinpat – Lotta di classe, l’ha chiamato – un altro megafono. Il suo nome è Comizio da salotto. In verticale e capovolto, pieno di terra, una pianta che spunta di fuori, è solo un vaso. Muto, com’è ovvio.

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