Nella seconda metà di ottobre sono stati pubblicati, a distanza di pochi giorni, ben due rapporti nazionali sull’immigrazione: il rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa e il dossier statistico sull’immigrazione del Centro studi e ricerche Idos. Entrambi gli studi evidenziano la profonda discrepanza tra la percezione del fenomeno migratorio da parte dell’opinione pubblica italiana e la situazione reale. Secondo i dati forniti dall’Eurobarometro 2017, il 33% degli italiani pone l’immigrazione al secondo posto tra i problemi più importanti, preceduta soltanto dalla disoccupazione. Sempre secondo l’Eurobarometro, il nostro è il Paese europeo dove la distanza tra la percezione e la realtà in tema di immigrazione è più significativa: gli italiani credono, in media, che gli immigrati siano il 27% della popolazione, quando invece al 1° gennaio 2018 i residenti stranieri nel nostro Paese sono 5.144.440, cioè solo l’8,5% di tutta la popolazione residente (dato più o meno costante negli ultimi 4 anni). Di questi, 3.714.934 sono cittadini non comunitari. Sempre al 1° gennaio 2018, sono solo 180 mila i richiedenti asilo, lo 0,3% di tutta la popolazione.

Questi non sono semplici numeri. Sono dati che servono per riflettere sulla mancanza di elementi a sostegno della paura di “invasione” molto diffusa in Italia e più in generale in Europa. Tale paura è frutto non solo di ignoranza, ossia di non conoscenza di dati reali, ma anche della percezione distorta del fenomeno, alimentata dall’uso che di tali insicurezze si è fatto nelle recenti campagne elettorali. Uno studio dell’Istituto Cattaneo (“Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione”, 2018), fornisce utili informazioni sulla distorsione della percezione in 15 nazioni europee, mettendo in evidenza la relazione strettamente positiva fra l’indice Nim (ossia l’indice elaborato dal Pew research center, che misura il grado di sentimento nazionalista, anti-immigrati e contrario alle minoranze religiose della popolazione esaminata) e l’errore di percezione rispetto alla realtà (ottenuto dalla differenza tra percentuale di presenza di stranieri percepita nel proprio Paese e la percentuale reale). Com’è possibile vedere nella figura 1 tanto maggiore è l’indice Nim (che varia tra 0 e 10, aumentando al crescere del sentimento di ostilità verso gli immigrati e le minoranze religiose), tanto maggiore è l’errore nella percezione della presenza di immigrati nel proprio Paese.

L’Italia, tra i 15 Paesi considerati, presenta il valore più elevato di “errore di percezione” e il maggior livello di ostilità verso l’immigrazione e le minoranze religiose. Anche la relazione della commissione parlamentare Jo Cox sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio presentata nel luglio 2017, sottolinea come, a causa anche di una cattiva informazione, nella popolazione italiana è diffusa l’idea che gli immigrati siano la causa del degrado ambientale o peggio ancora dell’aumento della criminalità. Secondo la maggioranza della popolazione (56,4%) “un quartiere si degrada quando ci sono molti immigrati” e “l’aumento degli immigrati favorisce il diffondersi del terrorismo e della criminalità” (52,6%).

In realtà, la crescita della presenza di immigrati in Italia negli ultimi 25 anni – da meno di un milione di stranieri residenti nel 1992 a 5 milioni nel 2017 – si è accompagnata a una diminuzione della criminalità: gli omicidi volontari sono passati da circa 1.700 all’anno a “soli” 380. Ed è diminuita la microcriminalità (furti e rapine): nello stesso periodo, l’indice di microcriminalità è sceso da 29 mila a circa 20 mila per milione di abitanti. Non solo. Secondo gli ultimi dati del Viminale, il 2017 ha visto un calo del 9,2% dell’insieme di tutti i delitti in Italia rispetto al 2016. Proprio l’anno in cui le richieste d’asilo hanno raggiunto il numero più alto di sempre, 130 mila circa (tale dato è calato di circa il 90% nei primi 9 mesi del 2018, passando ad appena mila, in seguito all’accordo firmato nel 2017 dal governo italiano con la Libia).

Un ulteriore ambito in cui la disinformazione contribuisce a creare molte tensioni tra autoctoni e stranieri è l’economia. Non stupisce più sentir dire che gli stranieri “vengono in Italia a rubarci il lavoro” o che “sono un aggravio per le casse dello Stato, perché pesano sul sistema sanitario e assistenziale”. È bene far chiarezza anche su questi aspetti. Come evidenziato nel rapporto dell’Idos, la gran maggioranza dei lavori svolti dagli stranieri sono poco qualificati e poco retribuiti. Nel 2017 la forza lavoro straniera occupata in Italia era poco più di 2.400 mila unità, circa il 10% del totale degli occupati. Di questi, i due terzi impiegati in lavori poco qualificati e poco remunerati: come collaboratrici domestiche e badanti (il 71% è straniero), venditori ambulanti (più del 50%), facchini, camerieri o addetti alle pulizie in alberghi e ristoranti (18,5%), manovali nel settore edile oppure braccianti nel settore agricolo.

Si tratta di posizioni che generalmente attraggono molto poco gli italiani e che hanno un grado di precarietà molto alto. Senza contare che, se è vero che il tasso di occupazione degli stranieri è più elevato di quello degli italiani, grazie anche alla loro maggiore mobilità geografica, i loro salari sono mediamente del 25% più bassi. E per le donne immigrate la situazione è anche peggiore, visto l’ulteriore differenziale negativo del 25% rispetto ai lavoratori stranieri maschi. Un’altra piaga che colpisce gli stranieri è poi la bassa mobilità professionale e l’alta percentuale di lavoratori sovra-qualificati rispetto alle mansioni che svolgono (il 34,7% tra gli stranieri, contro il 23% degli italiani).

È probabilmente questa stratificazione del mercato del lavoro italiano che spinge molti stranieri ad avviare un’attività imprenditoriale autonoma. In Italia quasi 700 mila imprese (il 9,6% del totale) sono gestite da stranieri. Il maggior numero di esse si trova in Lombardia: poco più di 147 mila, con un’incidenza del 10,9% sul totale delle imprese. La maggiore incidenza si ha, invece, nel Lazio: 11,9% pari a poco più di 82.300 imprese. Le regioni con minore presenza di imprese straniere sono la Valle d’Aosta, la Basilicata e il Molise, dove l’incidenza è rispettivamente dello 0,1 per la prima e dello 0,4% per le altre due.

In generale, le imprese degli immigrati sono concentrate nel Centro-Nord e si tratta principalmente di imprese individuali, che operano soprattutto nei settori del commercio al dettaglio, dei servizi e delle costruzioni. Esse sembrano aver resistito meglio alla crisi iniziata nel 2008, differenziandosi sotto questo aspetto dai lavoratori dipendenti stranieri in generale, che invece sono stati più colpiti dalla crisi. Come rilevato nel rapporto della Fondazione Moressa, nel quinquennio 2012-2017, si è registrata una contrazione del numero di imprese italiane del 6,4%. Contemporaneamente, però, e in modo simile in tutte le regioni italiane, le imprese straniere sono aumentate del 16,3%.

I Paesi da cui proviene il maggior numero di imprenditori stranieri sono, nell’ordine, Marocco, Cina, Romania, Albania e Bangladesh. Pertanto, il contributo degli immigrati al Pil italiano non può che essere positivo. Gli stranieri contribuiscono nel complesso per l’8,7% al valore aggiunto, con punte del 19% nel settore dell’accoglienza e ristorazione, del 16,9% nel settore delle costruzioni e del 16,7% nell’agricoltura. A livello regionale il maggior apporto al Pil lo danno in Emilia Romagna, Lombardia e Lazio, con percentuali rispettivamente dell’11,9, 10,7 e 10,1.

Tornando all’idea degli italiani, condivisa da gran parte della popolazione europea, circa il “peso fiscale” degli immigrati e alla sua fondatezza, nel rapporto dell’Idos si legge: “…va rilevato che, per ragioni essenzialmente demografiche, la popolazione straniera, in quanto più giovane di quella italiana, in media è una popolazione in età lavorativa ed esercita un impatto piuttosto modesto sul sistema nazionale di welfare, incidendo in misura più bassa degli italiani sulla spesa pubblica (in particolare per le due voci più consistenti, ovvero pensioni e sanità)”.

Secondo Idos e Fondazione Moressa, i contribuenti stranieri sono circa 2,3 milioni e hanno versato Irpef per 3,3 miliardi di euro. Tenendo conto della spesa in consumi, si stima che ulteriori 2,3 miliardi siano stati versati come imposta sul valore aggiunto (Iva) e, considerando anche le imposte sui carburanti, le entrate derivanti da giochi e lotterie, le spese per i rinnovi dei permessi di soggiorno e per l’acquisizione della cittadinanza, che il totale versato dai contribuenti stranieri sia di circa 7,3 miliardi. 

Non meno importanti sono i contributi previdenziali versati dai lavoratori stranieri. La popolazione italiana sta invecchiando sempre più velocemente e la continua riduzione delle nascite mette in pericolo il funzionamento del sistema pensionistico. In questo contesto, i contributi dei lavoratori stranieri sono fondamentali. Se è vero infatti che anche gli immigrati andranno in pensione – e alcuni hanno già cominciato a farlo –, è anche vero che la maggior parte di loro è arrivata dopo il 1996 e pertanto la loro pensione sarà calcolata con il metodo contributivo.

Attualmente, l’85% delle pensioni pagate ai cittadini italiani è basata sul retributivo, mentre solo lo 0,3% degli immigrati percepirà una pensione basata su tale metodo. Inoltre, molti immigrati fanno ritorno nel loro Paese prima di aver raggiunto l’anzianità contributiva che consente di maturare il diritto alla pensione. Il loro contributo al sistema pensionistico italiano è quindi comunque positivo. Ma l’elenco degli effetti positivi sulla nostra economia degli immigrati potrebbe continuare, considerando il fatto che essi favoriscono la crescita dello scambio commerciale con l’estero.

Resta comunque il fatto che la realtà percepita dai cittadini è diversa da quella che emerge dai dati disponibili e di questo bisogna tener conto. Il rancore di gran parte della popolazione italiana nei confronti dell’immigrato è probabilmente dovuto alla crescita della disuguaglianza e all’immobilità sociale da cui dipende la sfiducia di moltissimi nella possibilità di accedere a una vita di qualità migliore. Tutto questo genera una “rabbia” che viene scaricata sugli immigrati, cioè su chi è ancora più vulnerabile, e che politici spregiudicati possono alimentare per ottenere consensi.

Per ridurre le distanze tra percezione e realtà appare necessaria un’informazione più corretta e più completa da parte dei media, ma per contenere il “rancore” occorre anche adottare politiche di integrazione e di coesione sociale verso tutte le fasce più deboli della popolazione, per farle uscire dalla condizione di vulnerabilità e quindi dalla ricerca concitata dei responsabili della propria condizione. Tra queste politiche d’integrazione dovrebbe esserci il riconoscimento della cittadinanza italiana alle seconde generazioni. Ragazze e ragazzi che qui sono nati e cresciuti, qui sono andati a scuola e all’università e qui stanno entrando nel mondo produttivo. Modificare la legge sulla cittadinanza non solo può prevenire il rischio di radicalizzazione, ma corrisponde al dovere dello Stato come enunciato nel mai abbastanza citato articolo 3 comma 2 della Costituzione.

Marilena Giannetti è ricercatrice di Economia politica presso l’Università di Roma La Sapienza