Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n.1 2016 de La Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista

Oggi più di ieri la Città, nella sua fattispecie globale, è un magma indistinto che sfugge a qualsiasi comprensione, se prima non viene mappata la sua struttura di potere, con la descrizione degli attori che competono per lo spazio urbano. Parliamo del pubblico come del privato, delle élites come degli outsiders, dei cittadini a pieno titolo e di chi preme alle porte della Città, progressivamente trasformate in frontiere selettive. Le metropoli oggi sono "consumate", non solo nello sprawl urbano, che ne deturpa l’immagine e ne cancella la storia, ma anche nel turismo mordi-e-fuggi, nei nuclei familiari "espulsi" in provincia a causa dell’alto costo della vita, nelle relazioni sociali deteriorate, nella continua riproposizione del cosiddetto "effetto Nimby" ogni volta che un territorio debba pagare costi sociali. Se aggiungiamo la fragilità familiare, i cambiamenti demografici, la precarizzazione del mondo del lavoro, la "sfiducia sistemica" dei cittadini, i vincoli di bilancio nei conti comunali e le trasformazioni nel ruolo dei sindacati comprendiamo come, da un lato, la crisi economica – ormai strutturale e non congiunturale – rischi di scompaginare definitivamente gli equilibri urbani, rendendo le città europee fortemente disuguali al loro interno, dall’altro sia necessario un profondo aggiornamento nella “cassetta degli attrezzi” del sociologo che si interessi al contesto urbano.

Non si tratta – si badi bene – di coniare qualche nuovo concetto, o di verniciare di fresco qualche vecchia teoria, quanto di suggerire un approccio verso una rinnovata Scienza della Città, che prenda atto di come la globalità sia entrata nel "fenomeno urbano" e di come la spazialità relazionale – cioè il territorio che delinea i legami sociali – imponga di tenere insieme economia, politica, cultura, società, in una stretta continuità tra localismo e globalismo. Oggi la "città sociale" del passato sembra un lontano ricordo e la "città del dialogo" stenta ad avviarsi, a causa dell’assenza di saldi punti di partenza: le identità sono plurali, le diverse organizzazioni comunitarie non dialogano tra loro, il lavoro non è più il valore significante della vita collettiva e dell’esperienza individuale.

Anche l’urbanistica ha le sue responsabilità: le piazze sono diventate semplici "spazi di attraversamento", le zone industriali sono state riconvertite in zone abitative di alto rango oppure in aree espositive "monouso", le stazioni del trasporto urbano sono state elaborate in algidi hub: la città post-fordista sembra poter fare a meno non solo delle sue vecchie fabbriche, ma anche dei suoi abitanti. Non è così, evidentemente: lo Human Factor ancora esiste, nella sua resilienza, e presenta le proprie istanze nei termini di politiche per l’integrazione, per il diritto alla casa, per l’avviamento al lavoro, per il sostegno alle fasce deboli. La risposta delle amministrazioni è discontinua e scarsamente generalizzabile, se non nella deludente efficacia: improbabili opere di "ingegneria sociale" – con le quali si intende favorire la nascita di spazi di socialità forzata – si alternano a provvedimenti emergenziali, presi in seguito alla pressione mediatica e senza un precedente studio di fattibilità; spesso, semplicemente, si vivacchia con quelle poche risorse messe a disposizione dal nuovo dogma del pareggio di bilancio, contando sull’auto-organizzazione dei cittadini, almeno fino a quando rimane nell’alveo della gestibilità.

Poco battuto, invece, il campo opposto, che pure sarebbe di immediata attivazione: valorizzare ciò che è già presente nei territori (socialità, esperienza, cultura popolare e underground, ma anche coscienza di classe e orgoglio di quartiere) e partire dalle "cattive cose vecchie", in attesa di quelle buone e nuove. È ciò che si è tentato di fare nel n. 1/2016 de "la Rivista delle Politiche Sociali", Le città nella crisi, studiando casi specifici di policy riuscite oppure fallite, "calate dall’alto" oppure condivise con la cittadinanza, prodotte dall’emergenza oppure conseguenza di una programmazione pluriennale. Dal centro alla periferia, dalle strutture ex militari all’auto-organizzazione dei comitati civici e delle associazioni di quartiere: i casi analizzati da diversi autori hanno a che fare con la Città, nella sua molteplicità di forme associative e di esperienze, nel suo continuo alternare potenzialità e rischi, consenso e conflitto. L’ottica comparativa induce Clément Boisseuil a confrontare Parigi e Chicago nella rispettiva "risposta urbana" alla crisi economica.

Il sospetto di un forte ridimensionamento del welfare viene confermato solo parzialmente: è più corretto parlare di una sua "ristrutturazione strumentale" che punti anche alle politiche attive per il lavoro: workfare, quindi, più che welfare. Ciò che si verifica a Parigi e a Chicago, peraltro secondo traiettorie che precedevano la depressione economica, non accade però ovunque. In Italia, ad esempio, le politiche urbane di sostegno alla popolazione in difficoltà hanno spesso (pigramente) seguito il criterio della "territorialità": gli amministratori davano per scontato che il disagio si esprimesse nelle periferie e unicamente nelle periferie, con la duplice – e deleteria – conseguenza, da un lato, di misconoscere gli sforzi autoprodotti delle associazioni e dei comitati che vivono i quartieri periferici, dall’altro di ignorare le problematiche proprie di zone urbane solo in apparenza più fortunate. Come ha ben scritto Alfredo Alietti, nelle città il welfare si è progressivamente spostato "dagli individui ai luoghi", con il risultato di attribuire a determinati quartieri lo stigma della devianza e della pericolosità (badlands), giusto perché inclusi in qualche programmazione di policy. Antonella Coco, di contro, ci ricorda come la marginalizzazione sociale non tiene conto della topografia, tanto che i centri storici delle città italiane – si veda il caso di Cosenza, oggetto dell’indagine – sono diventati il rifugio delle fasce deboli di cittadinanza, quando non risultano appaltati al turismo mordi-e-fuggi.

Il destino della "città pubblica" è poi costantemente insidiato, come evidenzia Francesca Artioli, dalle privatizzazioni e dalla necessità, per gli enti locali, di "fare cassa". La questione ritorna prepotente con gli stadi (adesso solo calcistici, un domani relativi anche ad altri sport) di proprietà delle società sportive: un business all’estero già consolidato, ma nel nostro paese ancora in via di definizione, eppure già particolarmente delicato. È attraverso il leisure, il gioco, lo sport – quindi ciò che viene considerato ancillare, non fondamentale – che vengono introdotti cambiamenti strutturali, successivamente allargati a tutte le sfere del vivere sociale.

La questione urbana e le conseguenti politiche richiamano con forza il ruolo degli attori sociali ed economici. Più volte i casi trattati dai diversi autori evocano il potenziale (e necessario) ruolo del sindacato. In particolare l’esperienza della Camera del lavoro di Milano, descritta da Bonini e Lembo, rappresenta un caso emblematico di quale possa essere il ruolo della contrattazione sociale per aprire a soluzioni innovative, di fronte ai bisogni inediti che la crisi e i mutamenti sociali hanno prodotto, e per ridefinire i confini della stessa rappresentanza sindacale a soggetti – uomini e donne italiani e stranieri – altrimenti senza voce. Massimo Bricocoli, Cosimo Palazzo e Stefania Sabatinelli, nel loro contributo, confermano l’importanza, per il soggetto indebolito dalla crisi, di recuperare il capitale relazionale e l’autostima: è quello che cerca di fare il Comune di Milano con il progetto "Residenzialità sociale temporanea", che affronta la questione abitativa cercando di ritagliare un minimo di programmazione dentro scenari inevitabilmente emergenziali.

L’"Europa delle Città", cioè il continuum urbano più esteso al mondo, ideale surrogato delle difficoltà a raggiungere una piena unità politica continentale, è ancora lontana: allo stato attuale esiste effettivamente un "isomorfismo cittadino", che rende le metropoli molto simili tra loro, ma che non deve far dimenticare – nota Gaetano Sateriale – l’incidenza di variabili sovra-nazionali. Il welfare arretra, l’economia europea stenta a risollevarsi convintamente e il progetto politico continentale sembra segnare il passo: in Europa fatichiamo ad accogliere la disperazione e le energie di tanti profughi in fuga da Asia e Africa, mentre in Italia non riusciamo a trattenere quei giovani che decidono di "fuggire" all’estero; cambia la dinamica tra domanda e offerta di lavoro, mentre il libero mercato viene a conoscenza dell’economia della condivisione, pur tra contraddizioni e lati oscuri, puntualmente citati da Luca Raffini a partire dal caso di AirBnB.

Oggi la Città si presenta come un vero rompicapo e la sua amministrazione come una sfida al limite delle possibilità, a meno che non si muti drasticamente il paradigma di riferimento: basta austerità, stop ai tagli nel bilancio, discontinuità rispetto all’immagine del contesto urbano come "comunità difensiva", spazio invece a una chiave interpretativa che legga la Città come scenario di elezione dell’attuale "politica post-democratica".