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“Questa è una legge ancora vitale, perché ce n’era bisogno quando fu approvata e ce ne è bisogno anche oggi. Dopo un periodo di rodaggio di quattro, cinque anni, cominciò subito a funzionare bene, tanto che da quel momento in poi nessuno ha dichiarato apertamente di volerla cancellare, ma in tanti si sono messi all’opera per svuotarla dei suoi contenuti”. Con Umberto Romagnoli, uno dei grandi maestri del diritto del lavoro – disciplina alla quale ha regalato saggi fondamentali sul diritto sindacale e il pluralismo sociale – la conversazione che gli abbiamo proposto sullo Statuto dei lavoratori quaranta anni dopo la sua approvazione parte da qui, dalla domanda sulle ragioni della vitalità di una legge che per alcuni è un totem da abbattere e per altri, molti altri, è una conquista di civiltà di livello pari alla nostra Costituzione. Una legge investita a ondate ricorrenti da accese polemiche, che viene difesa nelle manifestazioni di piazza e criticata nei convegni politici; una legge della quale si postula l’inadeguatezza rispetto al mercato del lavoro di oggi e che però continua a funzionare egregiamente nelle aule dei tribunali e nelle cause di lavoro. E che soprattutto con la sua architettura complessa è stata capace – come ha scritto un altro dei maestri che ha guidato fin quasi a ieri il cammino del diritto del lavoro del nostro paese, Giorgio Ghezzi – di armonizzare “sotto l’impulso innovatore di Giacomo Brodolini e di Gino Giugni” in modo coerente differenti ispirazioni, da quella di permettere al lavoratore l’esercizio dei diritti consacrati dalla carta costituzionale all’altra di assicurare al sindacato la piena cittadinanza all’interno delle fabbriche.
Rassegna Gino Giugni, il principale collaboratore del ministro Brodolini nei mesi in cui lo Statuto da ancora generica proposta – fu Di Vittorio a parlarne per primo nel 1952 – diventò testo di legge, ha raccontato che esso nasce dalla suggestione del New Deal, da cui trasse l’esempio di una legislazione di sostegno che permettesse al sindacato di esercitare con efficacia la sua funzione nei luoghi di lavoro. Lei aggiunge che, alla base dello Statuto accanto al New Deal c’è anche la cultura costituzionalista di Weimar.
Romagnoli La repubblica di Weimar è stata la prima democrazia costituzionale post liberale del Novecento, una democrazia contrattata, a vocazione corporativa, in cui la società è organizzata in corpi intermedi che dialogano tra di loro e con lo Stato, considerandosi parte dello Stato. Il diritto del lavoro nasce qui, dove si affermano per la prima volta i diritti della persona da far valere non solo nei rapporti tra cittadini e Stato ma anche nei rapporti interprivati tra cittadini. L’eco di Weimar, della sua opzione politica chiaramente socialdemocratica, io l’ho sentita proprio negli anni dello Statuto, con l’affermazione dell’universalità dei diritti della persona, a cominciare dai diritti del lavoro. L’ispirazione dello Statuto è più mitteleuropea che di origine americana, newdealista. Anche perché da noi sono mancati tutti i presupposti del New Deal, a cominciare da una coscienza democratica diffusa nel paese. Ricordo sempre una frase pronunciata da Donat Cattin, che fu ministro del Lavoro dopo la morte di Brodolini, “O firmiamo subito il contratto – disse – o arrivano i colonnelli...”
Rassegna Era l’autunno del 1969 e i contratto era quello dei metalmeccanici.
Romagnoli Sì, ma significava che il paese era sotto il ricatto della destra, sono gli anni della strategia della tensione, e da quel ricatto non siamo riusciti mai a liberarci. Lo Statuto venne approvato, ma il capitalismo industriale cominciò da quel momento a cambiare pelle, con le esternalizzazioni, il decentramento produttivo; le imprese si alleggeriscono e lo Statuto, che aveva come modello di riferimento la grande impresa fordista, verticalizzata, viene svuotato progressivamente da questo processo.
Rassegna C’è comunque anche un dato storico e politico da considerare. Lei stesso ricorda, in un suo saggio recente su Il Mulino, che il punto di vista del lavoro dipendente ha avuto il suo momento di massima forza quando è stata sovrabbondante la sua rappresentanza, una rappresentanza bicefala: sociale e politica.
Romagnoli Sì, una rappresentanza bicefala, cioè con una struttura binaria dove sindacato e partito politico di riferimento avevano lo stesso background e quindi erano canali di rappresentanza di un vasto agglomerato omogeneo. Oggi il lavoro dipendente è passato da una sovrarappresentanza a una sottorappresentanza; gli è restato solo il canale sindacale, per giunta diviso. Ma lo Statuto, comunque, pur essendo presente nelle rivendicazioni del movimento sindacale e nell’agenda dei governi di centrosinistra non sarebbe stato varato dal Parlamento senza l’esplosione di un indistinto protagonismo collettivo di massa da cui lo stesso sindacato fu spiazzato. Solo un po’ dopo riuscì a cavalcare la tigre della protesta, anche grazie allo Statuto che, com’è documentabile sul piano storiografico, è frutto di uno scambio politico: tra un governo che aveva bisogno di sostegno e consenso popolare e il sindacato che era sufficientemente forte per controllare le spinte conflittuali. Questa è la prima legge sindacale negoziata che l’Italia abbia avuto, molto prima della concertazione.
Rassegna Vuole sostenere che il vero beneficiario dello Statuto è stato il sindacato, in quanto organizzazione? Fu anche questa una polemica del tempo.
Romagnoli Molte delle norme di cui si compone lo Statuto erano mutuate dalla contrattazione aziendale, da una linea che si stava affermando nelle grandi fabbriche del Nord per accelerare la fine del ciclo conflittuale: le bacheche, il diritto di affissione, il referendum nei luoghi di lavoro, i locali a disposizione dei dirigenti sindacali di base per l’espletamento del loro mandato. La legge viene costruita attraverso le lotte sindacali e ratifica, facendole diventare patrimonio dell’intero movimento, tutta una serie di conquiste che erano settoriali e locali. Gli operai furono i protagonisti e i sindacati furono i maggiori beneficiari, quelli che incassarono le cedole più significative di questa operazione politica. Non c’è dubbio che il sindacato si sia rafforzato anche con l’aiuto, certo non molto spontaneo, della controparte. Questo rafforzamento, però, non solo non è servito a evitargli la solitudine attuale, ma mi chiedo fino a che punto l’abbia indotto a utilizzare questi vantaggi in termini non imperialistici, per valorizzare l’individualità, la soggettività dell’iscritto. Il sindacato parla di democrazia sindacale ma non la pratica, basti pensare alla Uil, alla Cisl; si è affermato il primato dell’organizzazione – una grande organizzazione di potere – sulla dimensione individuale.
Rassegna Anche in quegli anni, dicevo prima, c’era chi avvertiva – continuo a pensare non troppo generosamente – che lo Statuto serviva troppo al sindacato e poco a quell’ingresso della Costituzione in fabbrica di cui parlavano i favorevoli; ma, in fondo, non fu quello il punto di equilibrio possibile?
Romagnoli Non c’è dubbio, la stessa ideologia contestataria dei gruppuscoli non ha giovato perché era facile respingere le loro obiezioni definendole settarie. Erano gli anni di gruppi che si raccoglievano attorno a Quaderni Rossi, Classe, Quaderni Piacentini, movimenti intellettuali che avevano ascolto presso il sindacato di base. Tutti questi movimenti non riescono a stabilire rapporti costruttivi con il gruppo dirigente del sindacato e dei partiti, e viceversa. E questo ha avuto un effetto molto grave, poiché ci si è privati di stimoli, si è evitato di approfondire le loro argomentazioni; noi abbiamo perso qualcosa a chiudere la porta in faccia al movimento contestativo. E gli uomini che sarebbero potuti essere più attenti al dialogo, come Vittorio Foa, non erano allora molto ascoltati; sarebbero stati valorizzati solo successivamente, quando era tardi e il salto di qualità non era più possibile.
Rassegna Lei ha citato un nome, per quello che avrebbe potuto dare e non gli è stato possibile. Ma se lei dovesse citare non tanto altri nomi ma i contributi che alcune personalità hanno apportato ai contenuti della legge, a chi penserebbe? Si dice, per esempio, che tanto si debba, oltre che a Brodolini, a Donat Cattin, soprattutto per alcune accentuazioni più radicali del testo, come l’articolo 18.
Romagnoli No, Donat Cattin con l’articolo 18 non c’entra; semmai c’entra molto Gino Giugni, c’entra molto Federico Mancini che era stato uno dei maggiori studiosi dell’istituto del licenziamento. Per quel che riesco a ricordare, Donat Cattin ha lasciato una sua traccia più significativa nell’articolo 28, che fu importantissimo. Lo stesso Gino, qualche giorno dopo l’entrata in vigore dello Statuto, mi disse con un certo stupore “Ma hai letto sul giornale che un pretore ha fatto un decreto sulla base dell’articolo 28?”. Questa norma non appartiene al patrimonio del sapere di Gino, è più da sindacalista ed è efficacissima perché consente al sindacato di sostituirsi al singolo per reprimere un comportamento antisindacale, cioè plurioffensivo in quanto lede il diritto di un singolo e allo stesso tempo quello di un gruppo organizzato. Non ne sono certo, ma ci vedo lo zampino da sindacalista di Donat Cattin, perché canalizzare la sede giudiziaria attraverso il sindacato è una vecchia aspirazione dei sindacalisti.
Rassegna In realtà, ciò che colpisce in tutte quelle vicende è il rapporto fecondo che si realizza tra politici e intellettuali, uno di quei rari momenti della storia in cui questo è avvenuto.
Romagnoli Sì, è fecondo anzi tutto perché gli interlocutori erano fondamentalmente persone di grande onestà intellettuale. C’è stata allora una favorevole congiunzione astrale, che ha consentito a persone così straordinarie di mettersi in contatto all’interno di un’ipotesi condivisa, di un progetto comune. Ci fu poi un sodalizio vero tra Brodolini e Giugni, quelli che io chiamerei il padre e lo zio dello Statuto. Brodolini fu uomo capace di gesti di grande forza simbolica, come il viaggio ad Avola dopo la repressione sanguinosa di una manifestazione di braccianti. Con Giugni è nato in Italia il moderno diritto del lavoro, la sua influenza ha orientato parecchie generazioni di studioso, a cominciare dalla mia. Per questo penso sempre con tristezza alla fine terribile che ha avuto, morendo giorno per giorno per dieci anni.
Rassegna Lei dice che il diritto del lavoro nasce con lo Statuto, che mette nelle mani dei giudici un nuovo strumento per riportare giustizia e parità nel rapporto di lavoro.
Romagnoli È così, mai come in quegli anni la magistratura ha svolto un ruolo propulsivo del diritto del lavoro, con proposte innovative, soluzioni ardite. I pretori d’assalto nascono in quel frangente, si trovano tra le mani un materiale incandescente, molto malleabile e con spazi interpretativi larghissimi. Basti pensare alla nozione di comportamento antisindacale. È un concetto generale, che aspetta di essere riempito di contenuti, ma i contenuti li mette il giudice. Quando il potere aziendale viene procedimentalizzato, non è più esercitabile in maniera unilaterale, senza regole, ma deve invece confrontarsi addirittura con rappresentanze del soggetto destinatario del potere imprenditoriale…beh!, questo è uno scenario che fa impazzire. Noi, per esempio, abbiamo una Costituzione che dice che lo sciopero è un diritto, ma che si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano, che non c’erano e che, a eccezione del pubblico impiego, continuano a non esserci; ebbene arriva lo Statuto che dice che lo sciopero deve essere protetto, perché è tipico comportamento antisindacale ogni attività posta in essere dal datore di lavoro mirante ad intralciare l’esercizio del diritto di sciopero. È un capovolgimento, un’esplosione di libertà senza precedenti.
Rassegna Oggi il clima è molto meno esplosivo per quanto riguarda le libertà. Ed è evidente che questa situazione si sente anche nei rapporti di lavoro, nelle relazioni industriali, nell’attività del sindacato. In questo paese della disoccupazione, della precarietà dei giovani, degli accordi separati, dei tanti lavori, che cosa può dirci ancora lo Statuto, qual è il compito che può assegnarsi il sindacato?
Romagnoli Bisogna partire da alcune constatazioni. Primo, il lavoro è senza aggettivi, non c’è lavoro subordinato, autonomo parasubordinato, c’è il lavoro che è il passaporto della cittadinanza, come intende l’articolo 1 della Costituzione. Poi, il lavoro non deve essere solo l’oggetto di un contratto, ma il modo attraverso cui la cittadinanza esiste, ha una sua visibilità, reclama una presenza e uno spazio. Per cui se fino ad ora i sindacati hanno rappresentato e tutelato il cittadino come lavoratore, adesso devono imparare a rappresentarlo in quanto cittadino. Qualche anno fa fui sedotto, forse anche per il livello delle personalità che lo proponevano, dall’idea di superare lo Statuto dei lavoratori con lo Statuto dei lavori. Oggi non la penso più così, perché sarebbe un testo unico, una fotografia dell’esistente e il cambiamento non si attua con i testi unici, ma realizzando equilibri più avanzati.
Rassegna Sembra di risentire qualche eco delle vecchie discussioni, un ricordo di quelle torsioni polemiche che investirono lo Statuto, quaranta anni fa. È forse un altro segnale di una vitalità che non vuole spegnersi.