Pubblichiamo un estratto dal libro Conservatorio, di Tarcisio Tarquini, in uscita a maggio nella collana Carta bianca di Ediesse. Un reportage sui Conservatori italiani, partendo dal Conservatorio di Frosinone

Ero stato a Collemaggio, a visitare il conservatorio Alfredo Casella dell’Aquila che occupava allora un’ampia porzione dell’antica struttura conventuale, posta al fianco della chiesa dedicata a Celestino V, al principio dell’estate del 2008, meno di un anno prima del terremoto che in pochi attimi avrebbe distrutto il centro storico della città abruzzese e fatto crollare una parte della copertura medievale dell’edificio, appena fuori dalle mura dell’abitato, meta di una devozione tenace alla memoria del papa che, nonostante la condanna dantesca, la gente più umile, forse per antica diffidenza verso i vincitori della storia e il potere, continua a conservare intatta generazione dopo generazione.

Il direttore, Bruno Carioti, un docente romano di storia della musica che i suoi colleghi hanno confermato più volte presidente della conferenza dei direttori dei conservatori italiani, mi aveva accompagnato nella visita, aprendomi le aule, facendomi strada nei corridoi testimoni dell’antica destinazione del complesso, attraverso i pianerottoli di legno costruiti per passare da una zona all’altra in modo da creare un’unità spaziale dei diversi anditi. Eravamo arrivati, alla fine del percorso, sulla soglia di una grande sala ormai quasi definitivamente restaurata nella quale si stava ultimando la sistemazione delle poltroncine che da lì a non molto avrebbero dovuto accogliere il pubblico: era il piccolo auditorium, ultimo atto della lunga ristrutturazione dello stabile; sembrava incastrato al suo interno come a voler essere anche topograficamente il cuore del Conservatorio, il luogo nel quale accogliere la città, che negli anni settanta del secolo scorso era chiamata la Salisburgo italiana, per l’intensa attività musicale e gli artisti eccellenti che, sospinti da un avvocato competente ed entusiasta, Nino Carloni, ne avevano impreziosito la vita civile, decretando nel contempo la sua supremazia nelle stime annuali del rapporto tra popolazione residente e spettatori dei concerti.

Ho ripensato alla soddisfazione del direttore e al mio complice stupore di quel momento, quando ho appreso, cercando come tutti qualche informazione in più dopo le prime notizie sulla scossa della notte del 6 aprile 2009, che il conservatorio aveva subito lesioni strutturali, che qualche sua parte era persino crollata e che perciò la sede era stata evacuata e sigillata rimandando chissà a quando il suo ripristino. Per me, che dell’Aquila non conoscevo molto altro, questa vicenda minore, quasi un dettaglio dentro il grande affresco della devastazione degli uomini, delle cose, della stessa morale che ha sconvolto l’umanità di quella città, il suo affidamento nella partecipazione solidale delle persone quale argine da opporre ora e da sempre ai disastri della natura, è stato il mio particolare punto d’osservazione dei problemi dell’emergenza e della ricostruzione: la prova di una confusione che ha mescolato le decisioni giuste con quelle sbagliate, l’idea che le comunità potessero portare il loro contributo a venir fuori dal dramma con quella che esse, piuttosto, dovessero lasciare il campo ai tecnici, agli specialisti della catastrofe, sottomettendosi a scelte assertivamente presentate come le più opportune ed efficaci. È una storia che non ha una morale scontata, come con molta onestà mi ha confermato Bruno Carioti dopo che, cercando di mettere insieme e dare un senso alle impressioni ricevute dalla mia visita al prefabbricato che oggi ospita, si sostiene provvisoriamente, il Conservatorio, durante la quale avevo avuto per guida la sua vicedirettrice Rosalinda Di Marco, l’ho cercato per completare il quadro, con l’ausilio anche del suo punto di vista.

Il Conservatorio temporaneo è stato costruito in prossimità del casello autostradale di L’Aquila est; si raggiunge con facilità dirigendosi con la macchina per circa un chilometro verso il centro, e lo si trova appena imboccata una salita ai lati della quale si vedono le fermate dei mezzi pubblici, che portano alla città storica da questa periferia individuata come polo scolastico della fase post emergenza. Il requisito della facile raggiungibilità è stato il primo richiesto da Carioti alla commissione incaricata di scegliere le aree per permettere a tutti gli studenti, in gran parte provenienti, oltre che dall’Aquila stessa e Roma, dal resto dell’Abruzzo e dalle regioni più vicine di continuare a frequentare i corsi senza scontrarsi con la difficoltà dei trasporti.

Per costruire l’edificio ci sono voluti trentacinque giorni, dall’individuazione dell’area al decreto di esproprio è bastato un giorno, dal momento dell’emissione da parte della protezione civile del bando per l’affidamento dell’opera alla consegna dei lavori sono passati quattro mesi, nel cantiere hanno lavorato fino a centocinquanta addetti contemporaneamente. Tempi e ritmi forsennati, nel confronto con quelli che di consueto rimandano senza misura la fine delle opere pubbliche del nostro paese. E che in questo caso, a differenza di altri che hanno impegnato i resoconti dei giornali, sono sembrati a chi li ha osservati da vicino dettati da autentico spirito civico: dalla severa consapevolezza che quel fabbricato serviva alla rinascita, intanto proponendo la sua ospitalità a quelli che, con la legittimità degli anni più giovani, avrebbero potuto provarsi nell’impresa di ricomporre lo spartito delle loro esistenze.

Il Conservatorio ha un disegno semplicissimo, una struttura rettangolare su due piani che forma un cubo, verniciato di un rosso brunito, piuttosto anonimo; per capirne tutte le qualità bisogna entrarci dentro: l’ampio atrio separa il lato destro, dove sono situati gli uffici amministrativi, da quello sinistro, lungo il quale cominciano ad aprirsi le prime delle quarantadue aule che finiscono poi nel piano superiore su cui sono sistemate anche la biblioteca e la sala dei concerti; in petto a una parete di questa è montato un organo a due tastiere e a trasmissione meccanica realizzato da una delle botteghe di organari più antiche e prestigiose del nostro paese, che è come dire del mondo, quella del cavaliere Gustavo Zanin di Codroipo.

Ci sono arrivato proprio la mattina in cui i collaboratori del cavaliere, che qualche giorno dopo avrei ritrovato nel mio conservatorio per l’organo che anche noi abbiamo commissionato alla stessa bottega, stavano ultimando il lavoro e riflettevano sull’acustica della sala, ampia ma non sufficiente a valorizzare tutte le potenzialità sonore dello strumento, concludendo che l’apertura delle tende dei finestroni avrebbe permesso di migliorarla allungando il tempo del riverbero, mentre tenendole chiuse si sarebbe potuto procedere a un’accordatura più fedele per il suono più secco prodotto da questo accorgimento.

La qualità dell’acustica è il pregio maggiore del conservatorio prefabbricato rispetto al vecchio; le aule, che sono esattamente nell’identico numero della sede di Collemaggio perché la regola dell’intervento di emergenza vuole che non si dia più di quello che si è perso, hanno un’insonorizzazione perfetta, sia per la scrupolosa rivestitura delle pareti sia per la loro asimmetricità che evita la cupezza dei rimbombi. Non è, come è evidente, un particolare secondario; la convinzione dei docenti è che la resa acustica abbia determinato un netto cambiamento della didattica e dei risultati raggiunti dagli studenti, educandone l’orecchio ed elevando il livello delle loro prestazioni. È questa la ragione per cui sono tutti molto cauti sul ritorno nel vecchio edificio; si teme che la ristrutturazione, per quanto ben condotta, non riuscirà a dare lo stesso risultato. Si sa, comunque, che questo nodo dovrà essere sciolto. La provincia ha promesso che progetto di ripristino ed esecuzioni dei lavori saranno rapidi, il direttore Carioti, che con il passare dei mesi ha visto attenuarsi fin quasi a spegnersi l’addolorato entusiasmo dei primi interventi, calcola che occorrerà qualche anno per arrivare alla fine e saranno necessari finanziamenti consistenti, anche se pensa che sia giusto tornare là da dove si è stati scacciati dal disastro.

Ma questa del Conservatorio continua ad essere una storia imprevedibile; nelle cronache del dopo terremoto si era letto, per esempio, che la scoperta di vivere su una terra ballerina, capace non solo dei moderati sussulti che per mesi l’avevano scossa, inducendo alla rassicurante previsione che la violenza delle esplosioni sotterranee si sarebbe così dispersa in mille innocui aggiustamenti delle stratificazioni più profonde, avrebbe portato alla diaspora della numerosa comunità studentesca costituitasi e rinnovatasi negli ultimi quaranta anni intorno all’università, all’accademia di belle arti e al conservatorio.

È accaduto, invece, che gli iscritti al Conservatorio sono quasi raddoppiati, come se tanti giovani abbiano così voluto dimostrare la loro fiducia nella rinascita, assicurando la freschezza della loro presenza, diventando essi stessi attori di questa scommessa, addirittura assumendosene il ruolo di garanti. L’attività didattica si è fermata appena le poche settimane necessarie per rimettersi dal colpo; prima ancora che si concretizzasse la prospettiva della sede temporanea, si è formato un conservatorio virtuale con le sue classi diffuse nei conservatori vicini, ma anche in luoghi privati, come, a Pescara, nel laboratorio di pianoforti della casa Fabbrini, una famiglia famosa per la perfezione dei suoi strumenti e per aver fornito al grande Arturo Benedetti Michelangeli l’accordatore di fiducia.

Alla radice c’è un’idea semplice, nata dalla disperazione delle cose, e cioè che attorno alla musica, che è stata e continua a essere una delle anime di questa città, potesse ricominciare il cammino verso la normalità. Una musica, però, che accettava un innocente patto con il diavolo, quello di scendere di un millimetro dallo scalino dei suoi obblighi accademici per diventare, con una voluta esemplare evidenza, il linguaggio da prestare ai giovani per coinvolgerli nel gran concerto cui il progetto della ricostruzione, tutto sommato, con la polifonia delle sue voci poteva assomigliare. In virtù del compromesso sono state autorizzate più cattedre di chitarra e meno di musica da camera, senza che nessuno gridasse allo scandalo o ne denunciasse come irriguardoso il contenuto: si trattava, appunto, di continuare a suonare per ridare una colonna sonora alla città ammutolita. Per Carioti questo è anche il sentiero accidentato che può spalancare il futuro. Nessuno può dire adesso se sia solamente un buon proposito che i fatti si incaricheranno di smentire, come succede con un pensiero inopportuno o intempestivo. Conta però che qualcuno la pensi e poi la pronunci la parola futuro, questo sostantivo pericoloso che riesce sempre a recuperare un senso anche quando la natura e le sue crudeltà, gli uomini e i loro misfatti sembrano averglielo per quella volta e per sempre sottratto.

Su uno spiazzo leggermente più basso di quello su cui è stato posizionato il Conservatorio temporaneo sorge l’Auditorium provvisorio, firmato da un maestro dell’architettura dell’emergenza, il giapponese Shiguru Ban, che fa parte di un gruppo di professionisti che, a titolo gratuito, progettano manufatti ideati e costruiti per offrire le prime sistemazioni dopo le calamità naturali e della guerra. L’intervento progettuale e un buon contributo finanziario si devono al governo giapponese, chiamato in causa dagli stessi dirigenti del Conservatorio che avevano confidato, saggiamente come i fatti hanno dimostrato, nella consuetudine di quel popolo e dei suoi capi a rispondere alle ribellioni della terra e del mare con compostezza, efficacia, lungimiranza.

L’auditorium ha più di duecento posti, il colonnato che ne costituisce il perimetro e la struttura portante ripropone nel suo disegno gli stessi rapporti proporzionali di quello del Bernini a Piazza San Pietro, e Shiguru Ban, con una modestia non troppo usuale in professionisti della sua levatura, limita a questo richiamo architettonico il pregio artistico del suo lavoro. La vera eccezionalità, però, è rappresentata dal materiale di cui sono composte le colonne, cartone pressato poggiato su anime metalliche. La specialità dell’architetto giapponese sta infatti nell’utilizzazione di materiali a tempo, che rispondono al requisito della rapidità costruttiva ma anche dell’economicità che dà modo di evitare la crescita dei prezzi dei materiali tradizionali che si accompagna con regolarità inappellabile a ogni dopo terremoto. Questo è stato uno dei passaggi più difficili e discussi della fase delle prime ricostruzioni. La soluzione adottata per l’auditorium è, infatti, un compromesso rispetto all’idea originaria, lo stesso rafforzamento del cartone delle colonne con il metallo interno è il risultato delle preoccupazioni della protezione civile di fronte a un materiale non certificato nella nostra normativa della sicurezza.

Intorno alla realizzazione del Conservatorio e dell’Auditorium è divampata una polemica accesa che ha coinvolto istituzioni, il dipartimento di ingegneria dell’università e la protezione civile, dopo che questa, prendendo in mano la guida dell’operazione, ha relegato ai margini tutti gli altri e ha buttato nel cestino il primo straordinario progetto di Shiguru Ban, che era stato presentato in una conferenza stampa convocata congiuntamente, nelle giornate del G8 dell’Aquila, dai governi italiano e giapponese. Tutti ammettono oggi che l’idea era suggestiva e fattibile, e avrebbe avuto dalla sua il coinvolgimento in una sorta di stage di lavoro sul campo degli studenti universitari di ingegneria che avrebbero condiviso quella irripetibile esperienza con i loro professori e con il team di tecnici internazionali raccoltisi intorno all’architetto giapponese.

Della polemica c’è ancora traccia su youtube; se ne leggono le ragioni digitando il nome di Shiguru Ban, o quello di Aldo Benedetti, il capo del dipartimento di ingegneria dell’università aquilana che in un video di una decina di minuti illustra, non preoccupandosi di celare la delusa irritazione per non essere passati all’attuazione, le tavole del progetto, già testato per la sua fase esecutiva. Conservatorio e Auditorium, secondo queste carte, sarebbero stati un unicum, non due corpi confinanti ma separati come si è optato di fare successivamente e come si vede oggi. Il luogo stesso sarebbe stato differente, perché il maestro giapponese aveva immaginato la costruzione utilizzando una pensilina di tremila metri quadrati, innalzata nelle vicinanze del casello autostradale di Aquila ovest per fare da deposito ai treni della metropolitana leggera in costruzione prima del terremoto e poi interrotta senza alcuna volontà di tornarci sopra. Sotto la pensilina si sarebbe edificato un auditorium di seicento posti, circondato da una prima fila di aule del Conservatorio che sarebbero proseguite, fino a raggiungere il numero stabilito e necessario, in altre file più esterne costruite nell’area circostante; le differenze ambientali delle varie parti sarebbero state esaltate con segni luminosi che, spezzando la serialità degli spazi, avrebbero permesso la riconoscibilità delle diverse zone; l’auditorium sarebbe stato il centro del complesso che tutto insieme avrebbe avuto - così mi è parso di indovinare con un brivido scrutando le tavole – la figura della cassa armonica di uno strumento ad archi e il movimento di un flusso sonoro. Quando tutto pareva deciso, i tecnici della protezione civile hanno imposto le loro ragioni, bocciando la riutilizzazione della pensilina, la deroga al modello adottato di edilizia scolastica, con i suoi standard e i suoi vincoli, l’uso di componenti considerate non compatibili con le normative italiane, che questa volta sono risultate invalicabili, il ricorso alla collaborazione di studenti, che le leggi sul lavoro guardano con diffidenza, ma che forse, se si fosse voluto leggerle con lo spirito giusto, avrebbero anche suggerito il modo di ammettere, vista l’occasione e considerata l’opportunità formativa.
Nel terremoto, anche il Conservatorio ha registrato una vittima, una giovane studentessa di pianoforte, pronta ormai a volgersi al canto per il quale pareva avesse, oltre alla forte vocazione, il talento sufficiente. È morta nella notte di Onna, il piccolo centro che ha pagato alla sciagura il tributo più doloroso e che è stato cancellato quasi del tutto, con quaranta vittime, tra cui tanti bambini e famiglie intere annientate. In una cronaca di quei giorni un importante quotidiano ha raccontato la storia di due violinisti, marito e moglie, che nel crollo della loro casa erano riusciti miracolosamente a sottrarre alla furia delle mura polverizzate e dei calcinacci il loro violino, l’unico patrimonio salvato, insieme con quello inestimabile ma certe volte non sufficiente della vita, come ci ha raccontato nelle sue coraggiose testimonianze Giustino Parisse, un giornalista che ha perso in un attimo i due figli, maschio e femmina, e ha ripreso i suoi reportage l’attimo appresso sfidando un dolore implacabile, o forse solo tentando di circuirlo dentro le abitudini della fatica quotidiana.

Il violinista di Onna si chiama Francesco Negroni e insegna al Conservatorio di Frosinone. Ho avuto la tentazione di farmi raccontare direttamente da lui se è andata davvero come ha scritto il quotidiano, ma confesso di aver avuto il pudore di chiederglielo, per non correre il rischio di una smentita. La storia, infatti, è stata già raccontata e ha la forza di un simbolo che sarebbe sbagliato diminuire con qualche dettaglio in più o in meno, aggiungendo o togliendo qualche circostanza. Mi è capitato spesso di scoprire le forzature di giornalisti attenti più all’effetto che alla verità del fatto, e sempre la scoperta mi ha infastidito, non per aver dovuto constatare l’approssimazione o la disinvoltura professionale di un mio collega, ma per aver appurato come, all’esito della verifica, la storia si rimpicciolisse perdendo il suo significato, il suo valore esemplare. Il suono sulle macerie del violino di Onna, che sfida la distruzione e indica nella musica la trama leggera per vincere la morte, può anche non esserci stato nella realtà della storia, o può esserci stato in modo diverso; il salvataggio dello strumento può essere stato casuale e non miracoloso come il giornalista ha voluto farci intendere, non riuscendo a resistere a un’affabulazione tanto convincente e perfetta.

Quello che conta sul serio, però, è il messaggio che tutti noi abbiamo voluto ricavare dall’episodio narrato, accaduto quando e come doveva accadere, e perciò questa volta la cronaca può astenersi senza rimorso dalla diffidenza che ne alimenta la curiosità. Parecchi mesi dopo, navigando sulle pagine digitali di un quotidiano abruzzese, ho letto la notizia che nell’agosto del 2011 a Onna si è svolta una tre giorni concertistica intitolata musica sulle macerie; nel breve resoconto si dice che nel quartetto di archi che ha aperto la prima serata ha suonato Francesca Vicari, docente al nostro Conservatorio dove ha realizzato il progetto di mettere insieme una banda di ragazzini selezionati nelle scuole medie della provincia di Frosinone, raggruppandoli sotto il nome garibaldino di Giubbe Rosse. È stata invitata lì da Francesco Negroni, direttore artistico della manifestazione; a lui è spettato perciò il compito di un discorso inaugurale, nel quale ha voluto parlare della musica che riunisce le comunità disperse e rinfranca quelle addolorate. In altre parole, ha confermato che i violini sopravvivono alle disgrazie per lenirne le piaghe; per essere la laica reliquia dalla quale impetrare una speranza.

(Da Tarcisio Tarquini, Conservatorio, Ediesse, nella collana Carta Bianca diretta da Angelo Ferracuti. In libreria dal 7 maggio. Per gentile concessione dell’editore)