Si tiene oggi (giovedì 19 gennaio), presso la Camera del lavoro territoriale di Reggio Emilia, il convegno dal titolo “La penetrazione della ‘ndrangheta al Nord: l’economia illegale, lo sfruttamento del lavoro”, organizzato da Cgil nazionale e Cgil Emilia Romagna, Lombardia e Calabria. Prendono parte all’iniziativa, tra gli altri, Gianna Fracassi, Vincenzo Colla, Giuseppe Massafra, Elena Lattuada, Angelo Sposato e Stefania Pellegrini

Siamo ormai a un punto avanzato del processo Aemilia. Un processo iniziato nel gennaio 2015, con un'indagine della Direzione distrettuale antimafia di Bologna coordinata con le procure di Calabria e Lombardia, e che ha visto inizialmente 117 arresti nelle tre regioni interessate e quasi 500 milioni di euro di valore dei beni sequestrati (una parte di questi sono poi diventati confische di primo grado con la sentenza sui riti abbreviati). Il 28 ottobre 2015, dentro un padiglione della Fiera di Bologna messo a disposizione con risorse della Regione Emilia Romagna, ha preso avvio l'udienza preliminare con oltre 240 imputati, dei quali 54 accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Per gli imputati che hanno scelto il processo con rito abbreviato e patteggiamento, concluso il 22 aprile 2016, ci sono state 58 condanne, 12 assoluzioni e una ventina di patteggiamenti. È soprattutto importante rilevare che questa prima sentenza ha pienamente confermato l'impianto accusatorio dei pubblici ministeri e contenuta nell'indagine svolta dalla Direzione distrettuale antimafia: in particolare il “carattere autonomo” della cosca 'ndranghetista insediatasi in Emilia.

Fin dalle sue fasi iniziali, è stata forte la consapevolezza, nella Cgil emiliano-romagnola, di trovarsi di fronte a qualcosa di enorme, che richiedeva anche un innalzamento del livello di approccio del sindacato alla vicenda. L'elemento più significativo di questa consapevolezza è stata sicuramente la scelta di costituirsi parte civile nel processo, insieme alle Camere del lavoro di Reggio e di Modena, insieme a Cisl e Uil regionali. La costituzione di parte civile corrispondeva alla volontà di svolgere un ruolo attivo nel processo, in coerenza con la funzione di contrasto alle mafie esercitata in tutti questi anni nelle tante situazioni nelle quali la Cgil ha intercettato l’irregolarità del lavoro, l'illegalità economica e la presenza della criminalità organizzata.

Una funzione, peraltro, esplicitamente riconosciuta alle organizzazioni sindacali nel dispositivo con il quale il giudice dell'udienza preliminare le ha ammesse come parti civili nel procedimento, così come nell'importante passaggio costituito dall'audizione della commissione parlamentare Antimafia a Modena nelle settimane immediatamente successive agli arresti. Una scelta tutt'altro che scontata, che tuttavia ha consentito alla Cgil, all'associazione Libera e alla Regione Emilia Romagna di fare da traino per molti altri soggetti, alcuni dei quali – come la città metropolitana di Bologna e il Comune di Parma – si sono costituiti parte civile solo nella fase di avvio del processo con rito ordinario. Comunque, alla fine sono oltre 40 le parti civili e questo sicuramente è un fatto nuovo, come nuovo è lo svolgimento di un maxi processo di mafia al Nord.

La costituzione di parte civile è stata sinergica a quanto prodotto su altri terreni più propri all'iniziativa sindacale. Perché non c'è dubbio che il ruolo esercitato dal sindacato in questa vicenda è stato ed è utile, fondamentale, rispetto ai percorsi che hanno portato – per citare solo le due cose più significative - al Patto per il lavoro con la Regione Emilia Romagna, che è diventato anche il Patto per la legalità, e poi da ultimo al Testo unico su legalità e appalti approvato dall'Assemblea legislativa regionale qualche settimana fa. E, del resto, il contributo che il sindacato può dare a quella ricostruzione di anticorpi al radicamento mafioso di cui si è parlato - forse anche molto a sproposito - in questi anni, dipende soprattutto da ciò che riesce a sviluppare sui terreni che più gli appartengono, a partire da quello contrattuale. Per ricostruire gli anticorpi contro la diffusione della criminalità organizzata c'è bisogno comunque, prima di tutto, di avere una precisa consapevolezza di ciò che è accaduto.

La vicenda Aemilia, pure enorme, non esaurisce purtroppo il tema della presenza delle mafie in Emilia Romagna: sarebbe un errore pensarlo. Il problema purtroppo ha delle altre manifestazioni: nella regione sono operative infatti tutte le 12 mafie nazionali e internazionali. Ci sono almeno tre epicentri che sono rappresentati dalla costa, compresa la Repubblica di San Marino, dall'area emiliana e certamente dal ruolo della città capoluogo di regione. Sono tanti i settori penetrati: non ci sono solo l'edilizia e i trasporti, che in maniera enfatica emergono nella vicenda Aemilia; basti pensare a quanto sta avvenendo nel settore della lavorazione delle carni, sul quale la Cgil è fortemente impegnata, in particolare in quest'ultima fase. Tuttavia, nel caso di Aemilia eravamo e siamo di fronte a qualcosa di specifico, che va oltre il concetto di penetrazione della criminalità organizzata di matrice mafiosa all'interno di un tessuto economico sociale che si riteneva erroneamente sano.

C'è un passaggio, nelle 1.390 pagine di motivazione della sentenza, che descrive bene il fenomeno. È emersa la fisionomia di una struttura criminale moderna, che affianca le caratteristiche della classica tradizione ’ndranghetista calabrese a modalità operative agili e funzionali a penetrare nel profondo della realtà socio-economica emiliana, certamente più complessa e movimentata di quella di Cutro, da dove provengono la maggioranza degli imputati e ove risiede il massimo referente della cosca calabrese, Grande Aracri Nicolino. Ed è emersa altresì una dimensione prettamente affaristica dell'agire del sodalizio emiliano, finalizzata da un canto al reimpiego dei flussi di denaro provenienti dalla cosca calabrese, dall'altro alla produzione di ricchezza locale tramite condotte predatorie vieppiù agevolate della grave congiuntura economica del periodo, così da assecondare un processo di espansione, di vera e propria conquista fortemente inquinante e soffocante del vitale tessuto locale”.

Presupposto dell’azione delle associazioni criminali, prosegue ancora la sentenza, “è la disponibilità da parte delle stesse di imprese nei settori in particolare dell'edilizia e dei trasporti, partite Iva che nascono muoiono e si avvicendano e che rappresentano un prezioso strumento di sedimentazione e penetrazione della consorteria. Trattasi – è utile sottolineare questo passaggio - di imprese che non possono essere tacciate di funzioni meramente schermative dell'attività illecita, ciò verificandosi solo in alcuni casi. In molti altri invece le stesse sono realmente operanti ancorché di frequente affianchino all'attività principale le frodi fiscali, strumento elettivo di produzione di ricchezza per la sua facilità, e scarsa percezione del disvalore sociale, confondendosi lavori legittimi con le condotte illecite. Altre volte i lavori legittimi involvono a fronte di ostacoli in azioni illegali, casi questi ultimi nei quali la mimetizzata ’ndrangheta emiliana mostrava la sua essenza”.

C'è qui la descrizione di quella che già nell'indagine era stata indicata come la mafia imprenditrice, qualcosa di diverso dalle normali attività criminali. Queste stesse considerazioni avevano portato la Direzione nazionale antimafia ad affermare che eravamo di fronte - lo ha fatto un anno fa nel suo rapporto - al rischio di un'alterazione dell'ordine democratico. Un'affermazione davvero forte, ma che trova supporto anche nella rete di relazioni di coinvolgimento e di complicità costruite negli anni da questa cosca nel Reggiano e nei territori limitrofi, da Piacenza e Bologna, fino alla Lombardia e al Veneto. Il vicepresidente della commissione nazionale Antimafia, Claudio Fava, aveva usato un'altra espressione, aveva detto “complicità”, e parlava esattamente di questi rapporti, basati sulla convenienza, tra la 'ndrangheta e parte dell’imprenditoria di queste terre.

Dentro tutto questo sta l'aspetto chiave del metodo mafioso applicato al lavoro. È emersa chiaramente, in alcune realtà, la condizione di sfruttamento nelle sue forme più becere e incredibili. La punta di un iceberg, sotto la quale esiste una realtà che va scavata. È un fatto, emerso nell'indagine, che la penetrazione mafiosa sia potuta avvenire offrendo manodopera a basso costo - perché irregolare - nei subappalti, negli appalti pubblici, ma più spesso in quelli privati. Anche per questo è fondamentale favorire la più ampia conoscenza, anche all'esterno del tribunale, di ciò che già è emerso e potrà ulteriormente emergere nel corso del procedimento. Si colloca certamente in questo quadro il convegno che si svolge oggi, giovedì 19 gennaio, presso la Camera del lavoro di Reggio Emilia, per iniziativa di Cgil nazionale e Cgil regionali di Emilia-Romagna, Lombardia e Calabria, dal significativo titolo “La penetrazione della 'ndrangheta al Nord: l'economia illegale, lo sfruttamento del lavoro”.

Mirto Bassoli, segreteria regionale Cgil Emilia Romagna