Torna in primo piano il lavoro. Il governo incontra (separatamente) le parti sociali, dimostra un insolito ottimismo sulla possibile uscita dalla crisi ed esorta imprenditori e sindacati a intervenire sulla produttività del lavoro come tema chiave per dare un segnale di svolta e di ripresa all’interno e all’esterno del paese. Ne parliamo con Giuseppe Travaglini, che insegna Economia politica all’Università di Urbino e che a questi temi ha dedicato molti studi.

Travaglini La produttività del lavoro viene usata come misura di efficienza, di capacità produttiva e di crescita di un paese. È in effetti la variabile determinante. Già prima della crisi, prima del 2008, l’Italia e molti paesi del Sud Europa avevano un forte problema di crescita della produttività del lavoro. Per il nostro paese si era registrato un fortissimo rallentamento di questo indicatore, fino a variazioni negative. Però, in quel momento, quel basso tasso di crescita della produttività si associava a un’occupazione crescente. Ora la situazione dell’economia italiana è aggravata dal fatto che a quel basso tasso di attività si associa una crescente disoccupazione. E questo rende la soluzione del problema ancora più difficile, perché richiede manovre sull’occupazione che è difficile pensare che possano essere di aumento della stessa nel breve periodo

Rassegna Ma Monti chiede che sindacati e imprese trovino un’intesa sull’aumento della produttività del lavoro. E subito c’è chi dice che bisogna lavorare di più o che bisogna ridurre il costo del lavoro…

Travaglini Forse occorre fare un passo indietro. Quando si parla di produttività del lavoro, si parla sostanzialmente del rapporto tra il valore aggiunto prodotto e la quantità di lavoro utilizzata per produrlo. L’andamento della produttività dipende da quanto variano il numeratore (il valore aggiunto) e il denominatore (il lavoro). Un’osservazione preliminare è che agire solo su quest’ultimo aspetto è un comportamento decisamente miope, che ci condannerebbe a una rincorsa verso il basso che non aiuterebbe una vera ripresa.

È vero che si potrebbe lavorare di più – negli Usa lo fanno – ma paradossalmente questo potrebbe non portare a un aumento della produttività: perché se l’incremento avviene principalmente nei servizi (circa il 70% del Pil), questi non hanno un grande effetto sulla crescita del valore aggiunto, che è invece più sensibile ai cambiamenti nell’industria e nel manufatturiero; e perché la resa del lavoro nelle ore lavorate in più potrebbe essere tale da rappresentare una disutilità invece che un vantaggio competitivo. E del resto in Germania si lavora di più, ma fondamentalmente si lavora in modo più efficiente.

Allo stesso modo, anche l’argomento costo del lavoro non è sempre vincente. Se il costo del lavoro si riduce, si riduce anche la qualità della risorsa che immettiamo nel processo produttivo. Abbassando il costo del lavoro finiremmo per camminare sempre più nella parte bassa della specializzazione produttiva. E non è cosa che faccia bene al sistema-paese. Se io mi pongo il problema di come accrescere l’occupazione, il costo del lavoro potrebbe essere una variabile importante. Lo è molto meno se mi pongo il problema della produttività. Ma, tornando alla formula cui facevo riferimento prima, nella determinazione del valore aggiunto (il numeratore) ci sono tutti gli altri fattori della produzione – l’organizzazione dei processi, la quantità di beni (il capitale) immessi nei processi, la specializzazione produttiva, l’organizzazione dei mercati, le regole – che sono almeno altrettanto importanti della qualità e del costo del lavoro. Se davvero vogliamo aumentare la produttività (e la qualità) del lavoro, è su questi fattori che bisognerebbe insistere di più.

Rassegna Fattori che in buona parte, però, rimandano alla responsabilità di chi governa, a quella politica industriale che però non sembra essere nelle corde di questo governo…

Travaglini Non devo fare la difesa d’ufficio del governo, ma quando si è insediato Monti si è trovato a dover intervenire d’urgenza per stabilizzare i conti pubblici e dare maggior fiducia ai mercati sulla tenuta dell’economia italiana. S’è scelta la politica dei due tempi, che del resto è una caratteristica non solo nostra ma di molti paesi (anche se in altri paesi il secondo tempo poi viene davvero, mentre da noi assai spesso no…). E dunque adesso è il momento del secondo tempo. Anche qui, però, forse è meglio fare un passo indietro. Negli ultimi venti-venticinque anni in Italia e in Europa si è assistito ad un arretramento della presenza dello Stato nell’economia. Anche perché questa presenza è stata spesso interpretata come fonte di distorsione delle risorse, quando non proprio di corruzione. E’ prevalsa la versione neo-liberista dell’economia, che però non ha ancora mostrato le sue virtù. Almeno fino ad oggi. E così di politica industriale non s’è parlato più. Anzi in questi stessi ultimi anni l’idea prevalente è stata quella secondo cui è il mercato che alloca al meglio le risorse. Oggi, anche alla luce dell’intervento di Draghi e della Bce dell’altro giorno, che ripropone un interventismo delle istituzioni pubbliche, forse si apre nuovamente uno spazio di politica industriale. Il problema è di decidere dove intervenire, quali sono i settori, quali i comparti da privilegiare. Oggi le risorse sono poche. Se riprendiamo le ultime affermazioni di Monti e di Passera, forse le risorse si stanno ricreando, ma certo non c’è da scialare.

Rassegna Ecco, appunto, dove investire?

Travaglini Di sicuro sui settori che sono forti nell’export, che sono sempre stati il nostro volano nel manifatturiero. Anche perché le esportazioni rappresentano una componente fondamentale della domanda aggregata e quindi comportano non solo benefici nel lungo periodo, con la crescita in termini di processi tecnologici e di efficienza, ma hanno anche un ritorno nell’immediato sui redditi, con un processo moltiplicativo, con un ritorno keynesiano in senso stretto. Bisognerebbe lavorare sull’organizzazione dei mercati, con una presenza attiva dello Stato all’estero, per creare le condizioni per la nascita di reti di relazioni economiche stabili, non certo per la delocalizzazione pura e semplice come c’è stata in questi anni. In questa prospettiva la Cina dell’ultimo decennio insegna.

Il secondo punto è sicuramente quello della green economy. Due sono i grandi temi che vanno sotto questa voce: le energie rinnovabili e il risparmio energetico. E non stanno solo nelle linee di Lisbona ma anche nella nuova politica energetica europea che si è condensata nel pacchetto Clima-Energia 20-20-20. Questo apre grandissime opportunità di crescita: la riconversione verso processi verdi implica naturalmente risparmio sulla bolletta energetica, crescita dei nuovi settori, indipendenza tecnologica, esportabilità. Finora qualcosa si è fatto in questo campo, ma in maniera molto disordinata, senza una guida vera da parte dello Stato. Manca da anni un Piano energetico nazionale degno di questo nome.

Poi – terza priorità – c’è il problema della dimensione delle imprese: un tema di politica industriale oggi decisivo per il nostro paese. Nel mondo della competizione globale, la ridotta dimensione, che è una caratteristica del nostro tessuto produttivo, è un handicap molto forte. Alle imprese che hanno capacità di competitività internazionale bisogna fornire le condizioni istituzionali, nel territorio, per poter crescere, perché a maggiori dimensioni corrisponde una maggiore produttività e una maggiore capacità di competere. E anche perché poi, intorno alle imprese di medie dimensioni, può rafforzarsi l’indotto delle piccole. La dimensione d’impresa può essere favorita anche stimolando, sempre tramite norme ad hoc, la capacità di creare reti tra le imprese, che restano societariamente distinte ma collaborano strettamente, che so, alla realizzazione di un dato prodotto suddividendosi le varie fasi del processo produttivo. Per questi casi già esiste, ma è scarsamente conosciuta, la disciplina del “Contratto di rete”, del 2009, le cui prime elaborazioni risalgono al ddl Bersani della legislatura precedente, e il cui obiettivo era appunto di rinforzare la stabilità ed il coordinamento delle reti di impresa.

L’ultimo elemento è quello della specializzazione produttiva. Negli ultimi anni c’è stato qualche movimento nel nostro sistema produttivo verso settori più tecnologici, ma restiamo ancora molto legati al made in Italy, che è un asset importante ma che andrebbe rafforzato in quella direzione, anche per aumentare la produttività che esce da quei settori, in fondo tradizionali.

Rassegna Questi sono insomma i temi della politica industriale. Che però non vanno lasciati alla spontaneità del mercato ma richiedono un forte intervento da parte del governo.

Travaglini Assolutamente sì. Data la scarsità delle risorse di cui parlavamo prima, c’è bisogno di molta selettività. C’è bisogno di scelte politiche forti e decise. La domanda semmai è se un governo tecnico, e non politico, può gestire questa fase. Ma questo potrebbe essere il tema di un’altra intervista, magari a qualcuno che si occupa più di politica che di economia.