"Il dato su cui tutti possono concordare è che dall’emanazione del Jobs Act, per il valore ideologico che gli è stato affibbiato dal governo, si è scatenata una vera e propria 'guerra dei numeri', una rincorsa, cioè, a usare i numeri per sostenere se la riforma del mercato del lavoro funziona o non funziona. Una guerra che s'inasprisce in prospettiva elettorale. Il guaio è che, nel fare ciò, ci si dimentica dell’analisi reale, di cosa accade sul serio". Così, in una nota, Donatella Onofri, della segreteria della Cgil di Roma e del Lazio.

"Noi ci siamo rifiutati di entrare in questa dinamica deleteria. Il Jobs Act, anche qualora funzionasse, non ci piace, perché toglie diritti a chi ne ha di meno e li attribuisce a chi, tra le due parti, è più forte, ossia il datore di lavoro. Per tale motivo, possiamo osservare i numeri e incrociare le banche dati, senza la necessità di dover affermare ideologicamente che il Jobs Act funziona o meno. Questo è il metodo, a nostro parere, per capire la realtà e rappresentare il profondo disagio delle nostre città. Il dato che emerge nel Lazio, dal terzo trimestre 2017, non è in controtendenza con quelli precedenti, anzi", prosegue la dirigente sindacale.

"Come afferma l’Istat, c'è una crescita numerica di rapporti di lavoro, ma se la confrontiamo con il resto del Paese, dalle comunicazioni obbligatorie emerge che nel Lazio 'è significativamente inferiore a quello delle altre regioni'. Però, si tratta di un calcolo numerico e, come si può leggere nel glossario dell’Istat, a venire calcolati sono anche i contratti di un’ora di lavoro, anche non retribuito. Come nel resto del paese, inoltre, le cessazioni sono superiori alle attivazioni, ma quello che ci preoccupa maggiormente è che l’Osservatorio del precariato dell’Inps segnala che nel Lazio le cessazioni riguardano soprattutto i contratti buoni, cioè quelli a tempo indeterminato. Nella Regione, nei primi nove mesi del 2017, il differenziale tra rapporti a tempo indeterminato, attivati e cessati, dà un saldo negativo di 31.729 contratti a tempo indeterminato non sostituiti. O meglio, sostituiti parzialmente con contratti a termine, nella maggior parte dei casi di brevissima durata", rileva la sindacalista.

"A questi si aggiungono le tante crisi aziendali, per un totale di 23.598.807 ore di cassa integrazione. Per dare un’idea, si tratterebbe di 13.408 lavoratori a tempo pieno – ma la cassa non sempre è a 0 ore, peraltro non più possibile dal 24 settembre, quindi si tratta di una platea molto più larga –, cui si aggiungono 8.625 lavoratori che usufruiscono del Fis (fondo di integrazione salariale), un altro tipo di ammortizzatore sociale. Per tutti questi motivi, per tutte queste persone, abbiamo il dovere di trovare le risposte: in queste condizioni, i primi a sparire sono i diritti sociali, seguiti da quelli civili", conclude l'esponente Cgil.