Sta accadendo qualcosa in America. L’attesa per le elezioni che si terranno il prossimo autunno è senza precedenti. Mai le primarie sono state tanto seguite. Mai tanti candidati in lotta. Mai tanti soldi spesi per la campagna, più di un miliardo di dollari. Per la prima volta, dopo mezzo secolo, nessun rappresentante dell’amministrazione in carica chiederà alla nazione di rinnovargli la fiducia. Quest’anno i candidati di entrambi i fronti saranno una novità per il paese. Tutto ciò è il chiaro indice di una forte voglia di cambiamento. Solo un paio di anni fa, un entusiasmo come quello che sta accompagnando la corsa di Barak Obama sarebbe stato impensabile. Significa che gli Stati Uniti intendono voltare pagina per tornare ad essere quello che erano prima dell’11 settembre, vogliono tornare in quella che è la loro araba fenice, il famoso Sogno Americano.

Comunque andranno, queste elezioni segneranno l’inizio di una nuova era e la fine anticipata degli anni Duemila. Volendo parafrasare l’espressione di un famoso storico che ha definito “secolo breve” il Novecento, si potrebbe dire che per l’America questo è stato un decennio breve, cominciato tragicamente a New York una mattina di fine estate del 2001 e conclusosi nel 2008 con una grande voglia di futuro nei seggi elettorali dell’intera nazione. Non verrà ricordato come un decennio particolarmente luminoso e sotto certi aspetti la crisi in cui ha versato il paese nel corso di questo decennio breve si è riflessa nella letteratura. Tanto gli anni Novanta sono stati effervescenti e ricchi di romanzi importanti, spesso autentici capolavori come Infinite Jest di David Foster Wallace o Underworld di Don De Lillo, tanto gli anni Duemila sono stati un periodo asfittico, povero di novità. Ovviamente, ottimi libri sono stati dati alle stampe, giacché è impossibile che una narrativa vitale come quella statunitense si estingua completamente nel volgere di un mattino. Ma il grande libro, il “Great American Novel”, come lo si chiama da quelle parti, è mancato.

Il destino ha voluto che uno dei romanzi più importanti e letti degli ultimi tempi, Le correzioni di Jonathan Franzen, sia uscito appena una settimana prima dell’11 settembre. Molta della letteratura americana di questo decennio sembra segnata da questa coincidenza. Le correzioni raccontava i drammi quotidiani di una famiglia nel pieno della splendente normalità. I Lambert del romanzo di Franzen erano però una famiglia diversa da quelle che si vedono solitamente in televisione, composte di ragazzi che vanno a scuola e genitori che lavorano. In casa Lambert, i genitori erano ormai nonni e i figli abbastanza adulti da potersi considerare dei falliti. Per dirla più chiaramente, sono una famiglia vecchia, sul punto di disgregarsi. Per ovvie ragione, era assai facile leggervi una metafora dell’America. All’ombra del crollo delle Torri Gemelle, il disfacimento di una famiglia descritto da Franzen assunse contorni ancor più epocali. Prova ne sia che negli anni seguenti molti scrittori si sono cimentati nell’ardua prova di raccontare l’America dell’11 settembre finendo per ricalcare il modello de Le correzioni, quasi abbiano individuato una qualche profonda e inconscia corrispondenza tra la minaccia del terrorismo e la crisi della famiglia.

Tanto per fare un esempio concreto, nel 2006 un autore come Ken Kalfus, che in precedenza aveva prediletto trame e contesti non convenzionali, decide di affrontare il trito tema della storia del fallimento di coppia, usando come sfondo proprio quel giorno apocalittico. La dinamica di Uno stato particolare di disordine è più o meno questa: lui dovrebbe recarsi alle Torri Gemelle, dove lavora, ma fa tardi per flirtare con la maestra d’asilo della figlia; lei dovrebbe prendere un aereo per San Francisco, ma il destino le risparmia di schiantarsi insieme agli altri passeggeri in Pennsylvania. Lui gioirà nell’intimo per il grande attentato terroristico della Storia confidando che lei sia morta, lei farà altrettanto. Kalfus ordisce una serie di coincidenze al limite dell’inverosimile e le contrappone al dramma quotidiano di una coppia in conflitto. Ma questa privata guerra degli affetti combattuta sul palcoscenico della storia con la esse maiuscola ha un andamento artefatto che finisce per non raccontare né una cosa né un’altra. Su un piano analogo si muove anche l’ultimo romanzo di Don De Lillo, L’uomo che cade, a detta di alcuni il più deludente della sua lunga e onorata carriera. In questo caso assistiamo a un uomo che dopo essere scampato al crollo di una delle due Torri si presenta a casa della moglie che ha lasciato un anno prima. Fin dall’alba del secolo scorso, dai tempi in cui Conrad pubblicava L’agente segreto, il terrorismo è stato letto come una minaccia al sistema sociale centrato sul benessere della borghesia, il cosiddetto ceto medio di oggi. Nel modo in cui una parte della narrativa americana ha insistito sulla questione traspare però una forzatura che è indice di un disagio. Una perdita di sicurezza ben sintetizzata da Martin Amis quando ha provocatoriamente affermato che all’indomani dell’11 settembre tutti gli scrittori della Terra hanno considerato, seppure controvoglia, la possibilità di cambiare mestiere.

La narrativa americana ha saputo comunque offrire prove interessanti, in particolare da parte di un paio di giovani autori. I figli dell’imperatore di Claire Messud è un ottimo esempio. Tradotto di recente in italiano, è passato da noi ingiustamente inosservato. Si tratta invece di un romanzo notevole che, per stile e ambientazione, rinnova i fasti di un classico degli anni Ottanta, Il falò delle vanità di Tom Wolfe. L’azione ruota attorno a un fascinoso giornalista liberal di mezza età, guru della scena culturale newyorchese e punto di riferimento di una galleria di personaggi tanto glamour quanto velleitari. Il tono è quello di una dissacrante commedia di costume che mette a nudo i vizi degli intellettuali progressisti tracciando il ritratto di una nuova generazione di trentenni ancora in cerca di un’identità. Non meno degno di nota è Molto forte, incredibilmente vicino con il quale Jonathan Safran Foer ha osservato il dramma delle Torri Gemelle attraverso gli occhi un bambino, figlio di una delle tante persone che si gettarono nel vuoto per sfuggire alle fiamme, preferendo a una morte certa un’altra morte più certa ancora. La narrativa del decennio breve si è mossa anche su altri fronti, come quello di interrogarsi sul destino dell’identità individuale in un’epoca in cui il confine tra reale e finzione è diventato pressoché indistinguibile e l’io è sottoposto a un’incessante teatralizzazione.

Breat Easton Ellis, che molti ricordano soprattutto come l’autore di American Psycho, ha scelto di eleggere se stesso quale protagonista del suo ultimo romanzo, Lunar Park. La cosa in sé non sarebbe una novità, in quanto di libri autobiografici è pieno il mondo. Ma lo è il fatto che l’autore usa qui la propria persona come una materia da plasmare liberamente. In pratica fa di sé un vero personaggio da romanzo, sovrapponendo al vero Ellis un Ellis di fantasia e ordendo una trama che scimmiotta i cliché più tipici del genere horror. Attraverso questo artificio narrativo lo scrittore affronta il conflitto con il padre, cui peraltro il romanzo è dedicato. Quasi a dire che oggi riusciamo a trovare il coraggio di scavare in noi stessi solo reinventando come attori la nostra esistenza, e che nel nostro tempo ogni contatto diretto con la realtà è precluso e comunque non auspicabile. Pensare che tutto ciò sia dipeso dall’11 settembre sarebbe però riduttivo. Nel corso del decennio breve gli Stati Uniti si sono dovuti confrontare con la progressiva perdita di valore della loro moneta. È su tutti i giornali: il dollaro è ai minimi storici. Scacciato tra terrorismo e globalizzazione economica, il dollaro in caduta libera mette a repentaglio la sopravvivenza della cosiddetta middle class, l’autentica culla della civiltà americana.

Forse è anche per questo che molti romanzi del decennio raccontano di dissesti famigliari in scenari apocalittici. L’ultimo libro di Cormac McCarthy, La strada, epopea del rapporto tra un padre e suo figlio il giorno dopo la fine del mondo, è più che emblematico. La middle class vede rosicchiati i suoi spazi giorno dopo giorno e le fasce di povertà sono in continua crescita. Qualche anno fa negli Stati Uniti circolava una barzelletta su un generale del Pentagono in visita a una scuola elementare. Terminato il discorso ufficiale, il maestro annuncia alla classe: “Bene ragazzi, adesso potete chiedere al generale ciò che volete”. Un bambino di nome Bobby alza la mano e dice: “Io ho tre domande, signor generale: Come ha fatto Bush a vincere le elezioni se ha preso meno voti di Gore? Perché avete chiamato Patriot Act un provvedimento che limita le libertà civili degli americani? Perché non avete ancora preso Osama Bin Laden?”. Proprio in quel momento suona la campana della ricreazione e i bambini corrono in cortile a giocare. Un quarto d’ora dopo, i bambini rientrano in classe e il generale Ashcroft dice: “Purtroppo siamo stati interrotti dalla campana. Ora finalmente potete chiedermi quello che volete”. Una bambina di nome Sally alza la mano e dice: “Io ho cinque domande, signor generale: Come ha fatto Bush a vincere le elezioni se ha preso meno voti di Gore? Perché avete chiamato Patriot Act un provvedimento che limita le libertà civili degli americani? Perché non avete ancora preso Osama Bin Laden? Perché la campana è suonata venti minuti prima? Dov’è Bobby?”. Oggi, insieme a Bobby, gli Stati Uniti – e non soltanto loro – corrono il rischio di veder dissolversi il miraggio dell’eterna prosperità. L’entusiasmo che Obama ha risvegliato in queste primarie dimostra però che la voglia di riprendere a sperare e sognare è ancora tanta, e non soltanto in termini economici, ma anche di idealità e diritti. E chissà che a questo decennio breve ne faccia seguito uno lungo e con una Storia migliore da raccontare per gli scrittori.