Il terremoto e il successivo tsunami dell’11 marzo hanno riacceso il dibattito mondiale sull’utilizzo dell’energia nucleare; i temi principali su cui confrontarsi sono il fattore di rischio potenziale che si accompagna alle centrali nucleari e quale futuro immaginiamo per le energie alternative.
In Giappone, pure se negli ultimi anni sono aumentate le persone che ritengono il nucleare una scelta non sostenibile, il governo ha mantenuto a lungo invariata la propria politica energetica.

Per capire un po’ meglio quello che sta accadendo in queste settimane nel paese asiatico è utile gettare uno sguardo molto rapido sulla sua storia. Nel corso dei secoli il Giappone è stato particolarmente chiuso rispetto all’esterno, con un potere fortemente centralizzato e caratterizzato da una struttura piramidale. Nel periodo dello shogunato Tokugawa il governo era di tipo militare e l’isolazionismo era pressoché totale, basti pensare che gli stranieri sorpresi sul suolo giapponese venivano giustiziati. Bisogna aspettare fino alla restaurazione Meiji del 1868 per avere una qualche apertura del paese all’Occidente e una modernizzazione sia sociale che economica. Le profonde ferite lasciate successivamente dalla guerra, dopo il 1945, non hanno però impedito al Giappone di risorgere letteralmente dalle proprie ceneri. È su questa “scia” che si colloca la scelta nucleare: negli anni 70, quando fu avviata la prima centrale nucleare, il paese era in pieno boom economico e quindi necessitava di quantità sempre maggiori di energia. Quello del Sol Levante è un paese scarso di risorse naturali: non restava dunque altro che l’alternativa nucleare per sostenere l’industria; in questa ottica i rischi rispetto ai benefici erano, e in parte lo sono ancora, considerati accettabili.

Naturalmente non sono mancate le voci di dissenso. Ancor più forti, ovviamente, dopo il recente disastro nucleare. In questi giorni lo scrittore premio Nobel Kenzaburo Oe ha ribadito con forza il suo dissenso verso la politica energetica del governo. Nei suoi articoli si augura che l’incidente di Fukushima ricordi ai giapponesi le vittime delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Aiutandoli, in questo modo, a riconoscere i pericoli insiti nel ricorso a questa fonte di energia e a ricordare i “tre prìncipi antinucleari” contenuti nella Costituzione del paese ma di fatto ignorati: non possedere, non fabbricare e non far entrare armi atomiche in territorio giapponese. In uno di questi articoli Oe annuncia anche che il suo prossimo libro inizierà con una citazione dell’Inferno di Dante: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”.

In una società molto strutturata come quella giapponese, in ogni caso, ciascuno svolge un ruolo ben preciso. Se c’è un problema, a qualsiasi livello, ci sarà anche la persona adatta a risolverlo: per tutti gli altri il problema non esisterà. La scelta del nucleare si inserisce in questo approccio: il governo e numerosi scienziati negli anni hanno rassicurato la popolazione che questa opzione era sicura e sostenibile. Per il cittadino giapponese questo è sufficiente. In un certo senso la possibilità di contestare è estremamente ridotta: solo chi ha l'autorità per farlo, ad esempio un premio Nobel, può intervenire sapendo di essere ascoltato. È in questo quadro che si capisce perché la stampa abbia ampiamente “coperto” la manifestazione antinucleare che si è svolta a Tokyo nei giorni scorsi (e a cui hanno partecipato appena trecento persone) mentre ogni domenica per le strade di Akihabara ci sono centinaia di cosplayers (giovani mascherati, ndr) che sflano, cantano e ballano senza suscitare particolare meraviglia.

Dopo il terremoto e lo tsunami di marzo sta anche emergendo un’altra caratteristica rilevante della società giapponese: ovvero l’impegno strenuo nel far fronte all’emergenza con il lavoro quotidiano. Immediatamente dopo il disastro, tramite Skype, ho contattato alcuni amici giapponesi a Osaka e Tokyo. Nel sud dell’Honshu, a differenza della capitale, la scossa non è stata fortissima ma quando sono incominciate ad arrivare le prime notizie si è capito subito che alla fine il tanto temuto Dai Jishin (grande terremoto) era arrivato. Lo sgomento però è durato poco e nelle aree non colpite direttamente dalla catastrofe la voglia di continuare a svolgere bene il proprio lavoro e di condurre una vita normale ha prevalso sul resto. In parte ciò è dovuto all’abitudine del popolo giapponese ai terremoti (il paese è fortemente sismico). Un detto locale recita così: “Sai quali sono le cose di cui un uomo giapponese ha paura? La suocera, i terremoti e i tifoni”.

Ho chiesto ai miei amici nipponici se pensassero di lasciare Tokyo a causa dell’emergenza nucleare. La risposta è stata negativa. “La nostra famiglia, i nostri amici e il lavoro sono qui, ci dobbiamo impegnare tutti perché se ognuno di noi farà la sua piccola parte, riemergeremo anche questa volta. È vero c’è il tremendo pericolo delle radiazioni nucleari. Cinquanta tecnici volontari stanno mettendo a repentaglio le loro vite lavorando all’interno del reattore nel tentativo di arginare i danni. Ma noi non potremmo mai partire lasciando la nostra casa e il nostro paese a vedersela con le conseguenze di una catastrofe senza precedenti”. Ecco, questa è la concezione nipponica di unità nazionale e di onore.

Una visione da cui forse potremmo imparare qualcosa, quando per esempio affrontiamo dibattiti sul significato dei 150 anni dell’Unità d’Italia e se sia giusto o meno festeggiarli come cittadini e non come appartenenti a diversi schieramenti politici. Potrà sembrare assurdo, ma con tutta probabilità l’11 marzo sarà la molla che permetterà al Giappone di uscire dalla crisi economica degli ultimi anni.
Mi piace, infine, ricordare uno dei massimi pensatori giapponesi del secolo scorso, Shuichi Kato, morto nel 2008 a 89 anni. Riguardo al rischio nucleare e alle bombe atomiche egli citava Le note del guanciale di Sei Shonagon: “Qualcosa che sembra molto lontano ma che, in realtà, è molto vicino”.