Qualcuno li ha definiti rivoluzionari, a giusta ragione. Papa Latyr Faye, detto Herve, e Mbaye Ndiaye sono due senegalesi che da anni lavorano a un progetto ambizioso: restituire dignità a quei duemila migranti che in estate popolano il ghetto di Rignano Garganico, durante la stagione della raccolta del pomodoro. E liberare quelle centinaia che abitano l’inferno di lamiere e baracche improvvisate, senza acqua potabile, docce calde, elettricità e riscaldamento, anche nelle rigide stagioni invernali.

Ora sono vicino a raggiungerlo, questo obiettivo. La loro associazione ha un nome che è un programma, il loro programma: “Ghetto out”. Sono in Italia da poco meno di dieci anni, hanno fatto gli ambulanti, hanno venduto griffe contraffatte, hanno raccolto il pomodoro. Sono stati vittime di un sistema che specula sui permessi di soggiorno e le giornate lavorative. Poi hanno incrociato l’Art Village di San Severo, nato come centro di accoglienza della Asl e diventato un progetto di inclusione sociale, sul modello dell’esperienza del Gruppo Abele e che oggi ospita anche il presidio dell’associazione Libera. Nel piazzale dell’Art Village c’è una casa realizzata in legno, costata poco più di cinquemila euro. “Noi il ghetto, le condizioni disumane in cui vivono tanti ragazzi, le conosciamo, ci andiamo ogni giorno per ascoltare e cercare di portare un aiuto – affermano Herve e Mbaye -. Lì è nata l’idea di superare quel luogo non vivibile, che alimenta solo la mafia. L’idea dell’ecovillaggio”. Sostenuta da Libera, dalla Flai e dalla Cgil di Capitanata, dall’Arci. Due le parole d’ordine: autocostruzione e agricoltura sociale. Perché loro, i migranti, siano protagonisti fino in fondo del loro riscatto.

“Basta carità e assistenzialismo”. In quell’ettaro di terreno pianeggiante, la cui proprietà è privata e per occuparlo si paga una sorta di fitto, localizzato in aperta campagna quindi lontano dagli occhi di tutti, quello che era un rifugio spontaneo sorto attorno ad alcuni poderi abbandonati si è trasformato negli anni in un villaggio strutturato, dove a farla da padrone sono i caporali e non mancano infiltrazioni criminali legate al mondo dello spaccio di droga e prostituzione. L’acqua potabile e i bagni chimici sono assicurati ogni anno dalla Regione Puglia, che spende oltre un milione di euro l’anno. La stessa cifra, poco più, che servirebbe per costruire l’ecovillaggio che immaginano ad Art Village, sostenuti dal cartello di sigle. “Attorno al bisogno di quei ragazzi è nato un business, si spendono soldi a pioggia per servizi e per finanziare associazioni. Ma quella non è vera accoglienza, non è vero lavoro. Il destino lo vogliamo nelle nostre mani, non vogliamo carità o assistenzialismo”, sostengono con forza Herve e Mbaye.

La parola d’ordine è infatti autocostruzione. Replicare in scala il modulo abitativo già realizzata nel presidio di San Severo. C’è già un progetto esecutivo con computo metrico e cronoprogramma. Un eco villaggio multietnico che può ospitare tra le 400 e le 1000 persone. “Non destinatari di interventi ma protagonisti di un percorso di legalità e dignità”, afferma Daniele Calamita, segretario generale della Flai di Foggia. I terreni individuati sono di proprietà della Regione, “e siccome spingiamo su questo progetto da oltre un anno, speravamo di renderlo possibile entro questa estate. Aspettiamo segnali chiari e univoci da Vendola, che ha sempre sostenuto la bontà dell’iniziativa. Ma intanto per questa stagione dovremo accontentarci della tendopoli, che deve essere però solo una soluzione temporanea per chiudere con il ghetto una volta per sempre”.

Agricoltura etica. Non solo case in legno: lì dove sorge l’albergo diffuso intitolato a Thomas Sankara e che ospita modulo abitativi prefabbricati, uno dei quali porta il nome di Giuseppe Di Vittorio, vi sono venti ettari non coltivati, sempre di proprietà della Regione Puglia. “Abbiamo chiesto che fossero assegnati a cooperative di lavoro miste, italiani e migranti, per realizzare progetti di agricoltura ad alto impatto sociale – spiega Calamita -. Sia per assicurare una sorta di autosufficienza alimentare al villaggio sia per sperimentare coltivazioni tradizionali o propriamente africane, puntando sulla rete del commercio equosolidale che si è già detto disponibile”. Herve e Mbaye anche su questo hanno le idee chiare: “Pensiamo di piantare il miglio, alcune semenze che in Africa costano 40 centesimi al chilo mentre in Italia dieci euro, quindi prodotti ad alto valore aggiunto”. Ma anche fagioli africani e altri legumi, “varietà che in Italia non si trovano”.

Anche in questo caso l’ente a parole sostiene l’idea progetto, ma non ha ancora fatto alcun passo ufficiale per l’assegnazione dei terreni. “E’ un peccato che la Regione tardi – conclude il segretario della Flai di Foggia –certo è che con o senza le istituzioni noi questo progetto di eco villaggio e di agricoltura sociale lo vogliamo realizzare. Ci inventeremo qualcosa per reperire le risorse. Ad esempio già quest’anno la Puglia produrrà pomodoro etico: un privato ha messo a disposizione dei terreni, e lì lavoreranno italiani e migranti, con regolare contratto. Abbiamo anche l’interesse e il sostegno di esperti agronomi e dell’istituto Agrario di San Severo. Il territorio questa sfida la vuole vincere. Servono interventi strutturali, serve superare la logica dell’emergenza, serve investire sul protagonismo dei migranti. Tra pochi anni la Capitanata non dovrà più essere associata a parole come ghetti, sfruttamento, schiavi”.