“L’orchestra è un mondo. Ognuno contribuisce con il proprio talento. Per il tempo di un concerto siamo tutti uniti e suoniamo insieme, nella speranza di arrivare all’armonia”. Questa la filosofia – o, per meglio dire, un modo di interpretare il teatro che si traduce in un’emozione palpabile, sia tra gli attori sia nel pubblico – che anima il nuovo spettacolo della Compagnia Superdiverso, composta da attori e danzatori abili e diversamente abili e diretta dalla regista Luciana Lusso.

I 21 attori sono in scena dal 10 al 12 giugno 2014 al Teatro Quarticciolo di Roma con lo spettacolo “Il Concerto”, molto liberamente ispirato a “Le Concert” di Radu Mihaileanu. L’opera è realizzata nell’ambito del progetto “Il Superdiverso”, sostenuto da Roma Capitale, Dipartimento Politiche Sociali e Salute, e vede in scena gli attori e danzatori della compagnia integrata Superdiverso, ormai al loro 12esimo anno di attività. L’ingresso è libero su prenotazione.

“Questa storia parla di noi e noi ci riconosciamo in essa – spiega Luciana Russo –, perché la vera protagonista è un’orchestra, ovvero una compagnia di persone che hanno scelto un contesto lavorativo dedicato alla rappresentazione e all’esecuzione artistica. Il testo, poi, è particolarmente adatto alla trasposizione teatrale, anche se noi abbiamo scelto di utilizzare un linguaggio multimediale. La multiculturalità insita nella storia, infine, parla di integrazione, la stessa dimensione in cui noi lavoriamo da anni”.

Avete scelto di ambientarlo tra Italia e Albania, a differenza del film. Perché?

Per ragioni geografiche il nostro paese è da anni approdo di persone costrette a lasciare la terra di origine, le radici, gli affetti nella speranza di una vita migliore, o semplicemente dignitosa. Il loro grido non è altro che l’affermazione del diritto, sacrosanto, di esistere. L’Albania è un luogo vicino, ci separa un tratto di mare che si può trasvolare in quattro minuti. L’aspetto fisico degli albanesi è molto simile a quello di tanti italiani. Lo sguardo no, lo sguardo di quelle persone, protagoniste dell’esodo del 1991, anno in cui inizia la nostra storia, è invece simile a quello che vediamo ormai con una certa indifferenza in televisione, nei volti delle moltitudini di persone che sopravvivono alle traversate sui barconi. È lo sguardo di chi è cresciuto in uno dei tanti paesi dove ancora non esiste la democrazia. Dunque l’ambientazione Roma-Tirana potrebbe aiutare gli interpreti e il pubblico a sentire questa storia più familiare. La passione per l’arte (la musica in questo caso) riuscirà a spostare una improbabile orchestra nel luogo designato al ‘fare’ arte e raggiungere insieme l’armonia: il Teatro. Non solo quindi un esodo della disperazione, ma l’esodo di un gruppo di prestigiosi musicisti che ritroveranno la gioia di suonare in un paese libero.

La musica, come il teatro, sono espressioni profondamente personali e sensibili dell’essere umano. Eppure influenzano la storia collettiva. È anche questo il senso dello spettacolo?

Se si ripercorre la storia anche solo dell’ultimo conflitto mondiale si può scoprire che molti artisti sono stati salvati dalle persecuzioni razziali grazie alla loro arte: dai grandi direttori di orchestre sinfoniche a quelli di piccole compagnie teatrali che si sono battuti per la libertà di molte persone in nome dell’arte, ai grandi registi di cinema che riempivano di comparse le scene di massa e prolungavano le riprese per tempi improbabili. Questo accadeva indistintamente in tutta l’Europa devastata, in nome dell’arte, quella con la A maiuscola, che è un potente strumento di liberazione.

Come lavora una compagnia di teatro integrato? Qual è la vostra ‘filosofia’ di lavoro?

Faccio una premessa: l’arte è il tentativo dell’artista di rendere universale la propria visione del mondo, è rivelazione, e la sua espressione non dipende certo dal sesso, dal colore della pelle, dalla conformazione fisica, dalla presenza o assenza di disabilità. A Roma ci sono centinaia di scuole, corsi, seminari di Danza, Teatro, Mimo. Molti normodotati li frequentano ‘perché fa bene alla salute’, alcuni ‘per conoscere gente nuova’, almeno la metà perché ha la speranza di lavorare o già lavora nel mondo dello spettacolo. I disabili no. Di solito vengono spinti a studiare le arti dello spettacolo per fini esclusivamente terapeutici o di sostegno psicologico. Il disabile non studia danza, ma ‘Danceability’, non fa teatro, ma ‘teatro integrato’. Noi per primi usiamo questi termini per pubblicizzare le nostre attività. Lo facciamo per motivi di comprensione, ma ci rendiamo conto che così facendo, pur in completa buonafede, si scava un solco profondo tra il mondo dei normali e quello dei diversi. Il pubblico di uno spettacolo etichettato come ‘integrato’ o ‘con la partecipazione di portatori di handicap’ ha l’idea di trovarsi alle prese con un prodotto di serie B. È per questo che il ragazzo disabile, caduto rovinosamente, per sbaglio, sul palcoscenico, viene applaudito più della danzatrice normodotata alle prese con una difficilissima coreografia. Il pubblico di uno spettacolo integrato, più che la bravura o le capacità espressive, applaude (non sempre, ma spesso) perché prova pietà! Noi non facciamo questo, noi facciamo Teatro. I nostri attori ‘lavorano’ seriamente, non fanno terapia, e quando cadono si rialzano e proseguono lo spettacolo, senza applausi.

Cosa prevedete per il futuro della vostra compagnia integrata?

Il progetto è iniziato nel 2002, Questo è il dodicesimo anno di ricerca e di esperienza. Il desiderio più grande sarebbe che le compagnie di teatro integrato fossero prese in considerazione, come già accade in Europa, in misura sempre maggiore e avessero le stesse opportunità che hanno le compagnie di teatro di inserimento e di circuitazione. Il cammino è lungo ma il viaggio è cominciato.