Volantini, manifesti, prime pagine di giornali, circolari ministeriali e dispacci prefettizi, rapporti di polizia: una significativa selezione di materiali disposti in rigoroso ordine cronologico, la narrazione storica a darne in maniera sintetica ma efficace il contesto, le bandiere rosse del socialismo e quelle rosse e nere dell’anarchia a indicare il sogno che la ricorrenza accompagnava. Una bella iniziativa, la mostra dedicata al Primo maggio – “Il Primo maggio tra festa e repressione” – allestita all’Archivio centrale dello Stato, a Roma – promossa dalla Fondazione Pietro Nenni in collaborazione con altri istituti, tra cui la Fondazione Di Vittorio, curata da Gianna Granati, autrice anche dei testi –, allestita in occasione dei 120 anni della festa del lavoro e aperta sino alla fine di ottobre.

Una bella iniziativa
perché, nel raccontarci cosa sia stato il Primo maggio tra il finire dell’800, l’età giolittiana e la ventata rivoluzionaria del primo dopoguerra – per venire poi soppresso dal fascismo –, nell’Italia smemorata del tempo presente ci permette di ritornare non solo alle radici di una grande festa laica, ma di misurare anche la diversa prospettiva in cui si agitavano speranze, lotte, fatiche di ieri a paragone di quelle di oggi.

“Primo maggio! Che cos’è
, che fa (...) sussultare il cuore del proletario, del diseredato, che fa tremare di paura quelli che vivono della miseria del popolo (...)? Che cos’è quella parola magica che in tre anni soli di vita ha guadagnato il mondo? Annibale fuggiasco dalla patria terra percorse invano i regni sottomessi e minacciati dai Romani rapitori dell’universo, invano tentò di sollevare i popoli oppressi contro l’oppressore (…). Ora ci si mostra un nuovo fenomeno, mai visto dacché storia umana si scriva. Non è più il grido solitario di un uomo travagliato da un ideale non condiviso dal mondo, non più la paziente resistenza del cristianesimo, non più una nazione che si arma contro un’altra nazione. È un nuovo popolo, formato dagli sfruttati di tutte le nazioni, che si solleva minacciando contro un altro popolo, il popolo degli sfruttatori”.

Scorrere la paginacopertina di Primo maggio – doverosa la lunga citazione – numero unico uscito a Macerata in occasione della giornata del 1892, curiosare fra le altre riproduzioni che la mostra offre, non serve certo a convincersi che ieri era meglio di oggi – convinzione che sarebbe assurda –, può aiutarci però ancora una volta a ragionare sulla necessità di non farsi schiacciare sul presente: a capire che la lotta contro l’ingiustizia non è nata magari con i “compagni” venuti da Cartagine ma neanche, qualche annetto dopo, solo nel quindicennio berlusconiano. Il primo maggio 1890, dunque, diviene giornata del lavoro in tutto il mondo su indicazione del congresso della II Internazionale – sono presenti come delegati italiani Andrea Costa e Amilcare Cipriani – tenutosi a Parigi nel 1889.

Il proposito è di creare un momento di lotta
ma anche un’occasione di festa che accompagni la generale richiesta delle otto ore. La risoluzione approvata dal Congresso prende spunto dalla decisione adottata dall’American Federation of Labor (Afl) di indire per quella data una manifestazione a St. Louis. Tutto è cominciato tre anni prima, nell’86, a Chicago, quando la polizia durante un comizio davanti a una fabbrica ha ucciso quattro operai e arrestato poi alcuni anarchici, considerati responsabili dell’uccisione successiva di un poliziotto (quattro di essi verranno impiccati alcuni mesi dopo, l’11 novembre). Vista la buona riuscita del ’90, nel congresso di Bruxelles del 1991 l’Internazionle socialista decide di trasformare il primo maggio in una ricorrenza annuale.

Una ricorrenza segnata a lungo
, ovunque, da una dura repressione. “In Italia – ricorda Gianna Granati – il ministro dell’Interno ebbe costantemente la mano pesante: divieti, sequestri, arresti”. Le circolari emanate nell’aprile del ’90, dopo aver vietato “processioni e passeggiate collettive” – quelli che oggi chiamiamo cortei – estendono la proibizione agli “assembramenti e alle riunioni in luoghi pubblici che avessero luogo il 1° maggio con lo scopo di concorrere alla manifestazione indetta per quel giorno”. È così che avvengono tragedie come quella di Roma, dove la polizia spara sui manifestanti riuniti a Santa Croce in Gerusalemme – un passo da San Giovanni, divenuta poi, nel secondo dopoguerra, la piazza dei grandi appuntamenti del sindacato e della sinistra –, provocando molti feriti e uccidendo l’operaio Antonio Picistrelli. Una tragedia subito seguita da un grande moto di solidarietà per le vittime, con la costituzione di un comitato cui viene conferito l’incarico di raccogliere offerte per le famiglie e di organizzare il collegio di difesa per gli arrestati. Una tragedia a cui fa da pronto contraltare un documento inviato dalla Questura al giudice istruttore con “110 dichiarazioni raccolte fra persone di ogni ceto, note per probità e amore dell’ordine”. L’amore per l’ordine così paternamente custodito dalle istituzioni dell’ancor giovane Stato unitario può finire a volte, però, nel ridicolo. Non si può fare a meno di sorridere, passando all’anno 1894, di fronte alle decisioni prese dal prefetto della capitale.

“A Roma – ricorda sempre Granati
–, a cura del partito socialista è organizzata per il primo di maggio una ‘riunione campestre privata’”. Una gita fuori porta, in sostanza, con donne e bambini, che proibire proprio non si può. Che fare, allora? Si organizzerà un servizio di sorveglianza “tra le siepi”. Un inedito e immaginiamo divertente fuori programma, questo dei questurini costretti ad andar per fratte; ma un divertimento che dura poco. La repressione non tarda ad arrivare e un gruppo di tipografi addetti alla Gazzetta Ufficiale perde il posto di lavoro. Una sorta di guerriglia, insomma, quella che si combatte in questi anni. Con i manifestanti che, per evitare l’intervento poliziesco, tengono riunioni spesso private e questure e prefetture che intervengono comunque, sequestrando giornali, manifesti, volantini, arrestando chi venga sorpreso a cantare l’Inno dei ribelli o “il noto Inno dei lavoratori scritto dall’avv. Filippo Turati di Milano”. Un lungo tira e molla che diventerà guerra aperta con i moti del ’98 e la crisi di fine secolo. Durante il primo quindicennio del 900 la festività segue le alterne vicende del clima politico e s’intreccia alle contraddizioni di un paese in cui allo sviluppo del sindacalismo organizzato – nel 1906 nasce la Cgil – all’affermarsi del partito socialista in tante amministrazioni, al tentativo riformista di Giovanni Giolitti, si accompagna la crescente aggressività della destra nazionalistica.

Per evitare forme manifeste di protesta
contro la guerra, nel 1912, anno della spedizione in Libia, le “processioni”, ormai tollerate, vengono vietate ovunque. Ci sono però luoghi in cui nonostante tutto la festa si svolge ugualmente. Come ad Albano Laziale, dove – ricorda la curatrice della mostra – “l’amministrazione comunale socialista coinvolge nella celebrazione addirittura gli alunni delle scuole elementari ai quali viene tenuta ‘una conferenza sulla festa del lavoro’”, per poi essere accompagnati “a Villa Doria per la refezione”. La Grande Guerra non soffoca la celebrazione. Con gli uomini al fronte sono le donne ora protagoniste. “Donne di tutto il mondo unitevi!” recita il titolo di un volantino reinterpretando al femminile lo slogan del Manifesto comunista del 1848 (e rimandando all’Inno dei lavoratori: “Se divisi siam canaglia”, uno dei suoi versi). Verrà invece la divisione, e dopo il biennio rosso del 1919-20, con il progressivo espandersi dello squadrismo fascista, saranno sempre più forti le difficoltà, sino alla definitiva soppressione della festa con la nascita della dittatura.

Per una strana (e triste) ironia della sorte è il governo Facta, stessa direzione di quello che assisterà impotente alla marcia su Roma, nell’ottobre del 1922 (il secondo governo Facta appunto), a considerare per la prima volta in maniera ufficiale come festiva – seppure con alcune limitazioni – la ricorrenza. Solo un anno dopo, lo si può leggere in uno degli ultimi pannelli della mostra, con il regio decreto legge 19 aprile 1923, n. 833, il governo Mussolini – il fascismo non è ancora regime, ma le basi della dittatura sono già in essere – si decide che la giornata dedicata al lavoro debba celebrarsi il 21 aprile, giorno della fondazione di Roma, ed “è soppressa la festa di fatto del 1° maggio”.

E' la fine, e il Primo maggio resterà a lungo una giornata da celebrare solo per i fuorusciti. Torna a essere una festa con l’Italia liberata, e il decreto luogotenenziale 22 aprile 1946, n. 185 (Disposizioni in materia di ricorrenze festive) lo restituisce formalmente al paese. Ma, quasi a significare il difficile cammino che il lavoro dovrà compiere per affermare i suoi diritti anche nell’Italia nuova, è proprio in quest’occasione che si compie la prima delle stragi della storia della repubblica: Portella della Ginestra, Sicilia, i braccianti e i contadini massacrati dalla banda Giuliano intorno al cippo di Barbato. “Su commissione della mafia? Il mistero non è stato svelato”, chiude il racconto. Un passo più in là, all’uscita della sala, girato l’angolo disegnato dall’ultimo pannello, una gigantografia del tradizionale concerto di San Giovanni: a dire della giocosità della festa, oggi, ma fors’anche della diffusa inconsapevolezza fra tanti – non solo ragazzi, s’intende – di coloro che adesso ne godono.