Si sono ritrovati dalla sera alla mattina a dover “scegliere” se accettare un nuovo contratto di lavoro, perdendo di colpo una serie di diritti importanti e un pezzo consistente di reddito (a partire dalla quattordicesima mensilità), oppure rifiutarsi e fare i conti però con “le difficoltà dell’azienda”, affrontando così il rischio più che concreto di perdere il lavoro. Sono un gruppo di lavoratori di un punto vendita umbro di una nota catena di supermercati, convocati nei giorni scorsi in assemblea dall’azienda, insieme a un sindacato – una delle tante sigle del variegato arcipelago autonomo –, prima di quel momento sconosciuto a gran parte dei lavoratori in questione.

“Nell’assemblea l’azienda ci ha comunicato che non era soddisfatta dell’andamento economico – spiegano alcuni addetti del punto vendita – e che per questo aveva preso la decisione di cambiare il contratto nazionale di riferimento, non più quello stipulato tra i sindacati Cgil, Cisl e Uil e Confcommercio, ma uno nuovo, siglato da un sindacato autonomo con altre associazioni di rappresentanza datoriali”.

Un contratto con meno diritti 
A questo punto, il sindacalista, mai visto prima in azienda, ha cominciato a illustrare le novità che sarebbero intervenute con il nuovo contratto. È stato spiegato che ci sarebbero state cose buone e altre meno buone, ma quando – tornati a casa – i lavoratori sono andati a leggere i dettagli, hanno trovato soprattutto molte cose negative. A cominciare dal fatto che, sottoscrivendo il nuovo contratto, perderanno la quattordicesima mensilità, avranno meno ferie e meno permessi, subiranno una riduzione delle maggiorazioni domenicali e un peggioramento anche sulla malattia.

“Messi di fronte a una scelta quasi obbligata, molti hanno deciso di firmare – spiegano ancora i lavoratori – ed è facile capire perché. Noi invece abbiamo deciso di dire di no, perché ci siamo sentiti presi in giro, completamente scavalcati e convocati solo a cose fatte, senza alcuna reale possibilità di scelta. Per di più, con l’intervento di un sindacato di cui nemmeno conoscevamo l’esistenza e al quale nessuno aveva mai chiesto di rappresentarci. Per questo – concludono i lavoratori – anche se per noi ormai c’è probabilmente poco da fare (alcuni di loro hanno contratti a tempo determinato, ndr), abbiamo deciso di rivolgerci alla Cgil per fare in modo che ad altri lavoratori non capiti la stessa cosa”.

Sindacati in Direzione del Lavoro 
Da parte loro, i sindacati confederali, insieme alle categorie del commercio, si sono subito attivati con la Direzione territoriale del Lavoro dell’Umbria per segnalare “il proliferare di contratti” stipulati da sigle sindacali e soprattutto datoriali che non hanno “la rappresentatività necessaria”. “Abbiamo già svolto due incontri – spiega Vasco Cajarelli, della Cgil dell’Umbria – per denunciare questa pericolosa diffusione di veri e propri ‘contratti pirata’, che creano un’evidente situazione di dumping e inquinano anche il mercato, producendo una concorrenza sleale e penalizzante nei confronti delle altre aziende”.

Negli incontri, ai quali ha partecipato anche Confcommercio, i sindacati hanno richiesto prima di tutto di informare e coinvolgere tutte le imprese del territorio, “per evitare – come si legge in una nota diffusa dopo l’incontro – che siano attratte dalla possibilità di applicare una riduzione del costo del lavoro che, però, fa automaticamente diventare l’azienda inadempiente rispetto alle normative e alle certificazioni vigenti, Durc (Documento unico di regolarità contributiva) compreso”.

Il commento dell’ispettore 
Anche per Adriano Bartolucci, ispettore della Direzione del Lavoro Umbria (sede di Terni), “è evidente che il cambio di un contratto in essere pone una serie di problemi anche alla stessa azienda, in particolare in materia di imponibile contributivo e fiscale, perché la legge fa esplicitamente riferimento a contratti di categoria stipulati tra le organizzazioni comparativamente più rappresentative”. Questo significa che le aziende inadempienti rischiano, quantomeno, un recupero contributivo e fiscale. Di riflesso, potrebbero insorgere problemi anche per la concessione del Durc, che dà diritto a una serie di benefici e agevolazioni. “Alla fine il cerchio si stringe – spiega ancora Bartolucci – e risulta difficile oggi applicare un contratto che non sia realmente rappresentativo”.

Il ruolo dei consulenti 
Tuttavia, navigando in Internet, si capisce che l’interesse per queste soluzioni contrattuali alternative indubbiamente c’è. Lo conferma questo quesito, pubblicato sul sito dei consulenti del lavoro di Bari: “Abbiamo diverse aziende del settore commercio alle quali applichiamo il contratto collettivo nazionale Cgil-Cisl-Uil–Confcommercio. Visto il periodo particolare che stanno attraversando, stiamo cercando di ridurre i costi e quindi stiamo prendendo in considerazione di cambiare il contratto collettivo, sostituendolo con quello della Cisal o Cnai, visto che questi contratti prevedono solo tredici mensilità ed altre differenze non di poco conto a beneficio dell’azienda che fanno ridurre il costo del lavoro”.

Il punto di vista di Confcommercio 
La conferma sul ruolo dei consulenti arriva anche da Confcommercio. “Noi abbiamo rapporti molto stretti con loro e anche positivi – spiega Federico Fiorucci, coordinatore della Confcommercio di Perugia –, però ultimamente, con la crisi, capita sempre più spesso che alcuni consulenti consiglino le imprese in maniera, secondo noi, pericolosa, prospettando la possibilità di passare a contratti meno onerosi di quello Confcommercio, con conseguenze che però potrebbero essere poco chiare alle imprese”.

Ecco perché l’associazione datoriale ha chiesto che il confronto in sede di Direzione del Lavoro venga esteso anche all’Inps (per le questioni collegate alla contribuzione) e agli stessi consulenti del lavoro. “È importante bloccare subito questo fenomeno – conclude Fiorucci –, che purtroppo sta diventando endemico a livello nazionale e, se non stoppato rapidamente, rischia di creare seri danni non solo ai lavoratori, che perdono diritti fondamentali, ma anche alle imprese, che incorrono nel rischio di numerose sanzioni e vertenze”.

Il rischio della rassegnazione 
Intanto, nel supermercato umbro dove il contratto è cambiato, tra i lavoratori prevale la rassegnazione. “Ci hanno spiegato che è una decisione loro, quindi non possiamo fare altro che accettarla”, commenta uno di loro. “Io me ne andrò, perché il mio contratto scade tra poco e sono sicuro che non mi avrebbero comunque confermato, visto che non ho firmato. Ma tra chi resta c’è sconforto e prevale l’idea che comunque non ci sia niente da fare e che si può solo sottostare”.

Il parere del giuslavorista 
“Il tema della contrattazione pirata è cominciato a emergere addirittura dalla metà degli anni novanta. Oggi però assistiamo a una notevole intensificazione, che ha portato il fenomeno a raggiungere dimensioni preoccupati”. A parlare è Stefano Giubboni, docente di Diritto del lavoro presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Perugia. Secondo il giuslavorista, l’ordinamento giuridico già da tempo ha previsto alcuni strumenti di controllo, introducendo quella nozione, più volte richiamata, di “organizzazioni comparativamente più rappresentative”, utilizzata sempre più di frequente dal legislatore, proprio nell’ottica di porre limiti e paletti, in particolare per quanto riguarda il calcolo dei contributi previdenziali e assistenziali.

“Il punto è però – aggiunge Giubboni – che questo ‘sistema di protezione’ non vale per tutti gli istituti contrattuali, ma solo per quelli a regolazione pubblica, come gli obblighi contributivi appunto, mentre restano ampi spazi di manovra laddove prevale la natura privatistica della contrattazione”.

La soluzione nel nuovo modello contrattuale? 
Ecco allora che diventa centrale la questione della riforma del modello contrattuale. Cgil, Cisl e Uil, nel loro documento “Un moderno sistema di relazioni industriali” ripropongono il tema della certificazione della rappresentanza, anche delle associazioni datoriali. “In quel testo e negli accordi interconfederali sulla rappresentanza – conclude il professor Giubboni – si va certamente nella direzione giusta per trovare una soluzione definitiva a un problema che sta diventando sempre più rilevante”.