Era la metà di luglio quando Matteo Renzi, dal palco dell’Expo di Milano, annunciava le linee della politica fiscale del suo governo nei prossimi tre anni. Abolizione delle imposte sulla prima casa, abbattimento dell’Ires – l’imposta sul reddito delle società –, diminuzione dell'Irpef per lavoratori e pensionati. In questo ordine temporale. Il 2015 dovrebbe quindi essere l’anno in cui la legge di stabilità si occuperà della cancellazione, per tutti, delle odiate imposte sulla prima casa.

Il fatto è che da almeno un decennio assistiamo a un ridicolo balletto in merito all'argomento, introduzioni, cancellazioni parziali o totali, reintroduzioni, rimodulazioni di aliquote e formule di calcolo, nuove cancellazioni e promesse di riorganizzazione dell'imposizione immobiliare, e così via. È chiaro a tutti ormai che la tassazione dell’abitazione principale è argomento assai caro ai politici in cerca di consenso.

Per capire il perché basterebbe dare un’occhiata ai numeri. Il 73% delle famiglie italiane è proprietario dell'abitazione in cui vive: renderla meno costosa risulta quindi una mossa assai popolare. Ma è anche giusta? Da tempo la Cgil è impegnata nell’evidenziare la profonda ingiustizia che genera ogni abolizione generalizzata di un’imposta. Se infatti 8 milioni di nuclei poveri risparmieranno 55 euro all’anno, i 35.700 contribuenti più ricchi saranno esonerati dal versare 1.940 euro. Ed è chiaro che a rimetterci di più saranno i giovani, i migranti, le famiglie di lavoratori precari, ovvero quanti, statisticamente, più spesso non rientrano in quel 73% di proprietari dell’abitazione.

Ovviamente, le imposte sulla casa non sono attualmente né giuste, né eque. Non differenziano in base al patrimonio posseduto e, di fatto, equiparano l’unica casa, magari di modesto valore, di un contribuente qualsiasi con la prima e lussuosa casa delle 10 possedute da un ricco rentier. Per non parlare delle rendite catastali – il cui aggiornamento è stato stoppato dal governo per il 2015 –, che ancora valutano le case per il numero di vani, anziché per il valore commerciale e che rendono spesso quelle popolari periferiche di recente costruzione più “pregiate” rispetto alle case dei quartieri centrali.

Non solo. A dispetto del fatto che un’imposta che ha come presupposto il valore di un immobile sia di fatto una patrimoniale, Imu e Tasi non valutano le passivitàche spesso gravano sugli immobili acquistati dalle famiglie, soprattutto dei lavoratori dipendenti (i mutui ipotecari), tassando allo stesso modo patrimoni familiari enormemente differenti. Detto tutto questo, e al netto dell'iniquità delle imposte sugli immobili, due sono i punti da focalizzare più degli altri: 1) Per una famiglia, possedere un immobile è meglio che stare in affitto. 2) Possedere una casa di pregio o possedere una casa di scarso valore non è la stessa cosa.

Sembrano due banalità – anzi, lo sono –, ma non sempre è chiaro il motivo che traccia la differenza tra le situazioni descritte. Che è l’ammontare del patrimonio familiare. Possedere un’abitazione, specie un’abitazione di grande valore, significa avere un capitale che, pur con difficoltà rispetto ad altri strumenti, può essere smobilizzato, o utilizzato a garanzia per ottenere liquidità alla bisogna. Banalmente, un prestito ipotecario ha interessi inferiori rispetto ad altri tipi di finanziamento, il che significa che in situazioni di carenza di liquidità un patrimonio rende “meno costoso” il danaro per la famiglia che lo chiede, tanto meno costoso quanto maggiore è il valore dell'immobile posto a garanzia.

Il tutto per dire che abolire le imposte senza differenziare è un favore ai ricchi e non soltanto per i diversi importi che si andrebbero ad “abbonare”. E ragioni sociali e macroeconomiche (per la minore propensione marginale al consumo) sconsigliano questo tipo di provvedimenti nel bel mezzo di una crisi dei consumi come quella che stiamo affrontando. Sostenere, come alcuni fanno, che abbassare i costi immobiliari può far ripartire il mercato dell’edilizia è vero solo in parte. L’Ance, nel suo Osservatorio congiunturale sul mercato delle nuove costruzioni, ha stimato per il periodo 2013-2015 un calo degli investimenti nel settore residenziale di oltre il 22%, che sarebbe ingenuo motivare con il gravame sulla casa d’abitazione.

È invece chiaro che, a causa delle eccessive licenze rilasciate e del consumo di suolo trasformato in nuovi quartieri (non a caso le principali sofferenze di questo tipo si trovano a Roma, Milano e Torino), gli immobili non trovano acquirenti, perché si è creduto di cavalcare in eterno la bolla immobiliare, e anche perché la crisi dal 2008 ha notevolmente depresso la domanda. E anche ipotizzare che si possano diminuire le imposte per calmierare indirettamente gli affitti è una strada la cui efficacia è molto dubbia (ancor di più nel momento in cui si ipotizza di diminuire le imposte sulla casa d’abitazione di proprietà).

Per il rilancio dell'importante settore dell’edilizia, la Cgil (e ancor più nel dettaglio la Fillea) ipotizza, nel suo Piano del lavoro, investimenti pubblici e la spinta a quelli privati per orientare il settore verso le ristrutturazioni, la riqualificazione urbana, la messa in sicurezza del territorio, l’efficienza energetica, la bioedilizia, le infrastrutture materiali. E per calmierare gli affitti, propone di incrementare gli incentivi ai contratti con canone concordato.

Se poi si vuole parlare di stimolo ai consumi, sicuramente il trittico (imposte sugli immobili, sulle imprese e sul reddito) esposto da Renzi va ribaltato.Innanzitutto, devono essere diminuite le imposte sui redditi da lavoro e pensione, al palo da anni e che più degli altri hanno risentito della crisi, in seguito alle società, e solo alla fine quelle sugli immobili. Il che non esclude che queste ultime non possano essere rese nel frattempo più eque attraverso la revisione dei valori catastali.

E tuttavia, lo strumento fiscale migliore crediamo continui a essere quello di una patrimoniale progressivasulla ricchezza complessiva – anche immobiliare – delle famiglie, che preveda l’esenzione sotto una soglia ragionevole e colpisca i grandi patrimoni improduttivi per liberare le risorse necessarie a far ripartire investimenti, produzione e consumi del nostro paese. Più in generale, è evidente che le ingenti risorse destinate al piano taglia-tasse annunciato dal premier (si parla addirittura di 45 miliardi nel triennio), dati i permanenti altissimi livelli di disoccupazione, specie giovanile, dovrebbero essere utilizzate per la creazione di lavoro, per investimenti pubblici (settori ad alta intensità tecnologica e di conoscenza, beni comuni, infrastrutture materiali e immateriali, ricerca e innovazione ecc.). 

Responsabile Politiche fiscali Cgil nazionale