La sintesi giornalistica potrebbe essere questa: un G20 deludente e caratterizzato dalla spinta al rinvio. Per la maggior parte, infatti, i commenti dei principali organi di informazione e della stampa internazionale (in Italia è stato il Sole-24 Ore a farsi interprete del sentiment) convergono sul fatto che il G20 appena svoltosi ad Antalya abbia sostanzialmente spostato in avanti il tempo delle decisioni sulle principali questioni economiche e sociali nello scenario mondiale.

Un’impressione che i sindacati dei paesi del G20, riunitisi nei due giorni precedenti il vertice, avevano cominciato a maturare nel loro incontro, sulla base di quanto emerso sia nei contatti con gli sherpa e i funzionari che per i singoli paesi hanno seguito il lavoro preparatorio, sia nei colloqui svoltisi alla vigilia del summit nel corso di Labour 20. A una lettura obiettiva, il documento conclusivo di Antalya non pare avere il respiro e l’ambizione necessari per affrontare una situazione generale ancora caratterizzata dalla caduta dei tassi di crescita, dall’aumento delle disuguaglianze e delle disparità salariali, da bassi livelli di investimenti e dal permanere dell’emergenza disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile. In quel documento, le richieste e le priorità di L20, presentate ai leader riuniti in Turchia e definite sulla base del permanere delle criticità irrisolte nello scenario globale, non hanno trovato risposte adeguate.

Il primo capitolo delle priorità dei sindacati ha per oggetto i temi della crescita inclusiva con la creazione di lavoro a essa collegata, da realizzare attraverso l’abbandono definitivo delle politiche di austerità e delle loro conseguenze negative, politiche da sostituire con scelte in grado di produrre un deciso impulso alla domanda aggregata, agli investimenti, all’innovazione tecnologica, in un quadro contrassegnato da politiche redistributive e tassazione progressiva. Di conseguenza, ciò richiederebbe la revisione e l’aggiornamento delle strategie nazionali in tema di crescita e di occupazione. Più in particolare, servirebbe il rilancio del ruolo degli Stati nazionali, per definire iniziative concrete e coordinate di valorizzazione del lavoro e delle sue condizioni, di supporto al dialogo sociale e ai sistemi di relazioni industriali, di politiche attive del lavoro e dei servizi per l’impiego, di qualificazione dell’offerta relativa alla formazione e alla riqualificazione professionale.

Il secondo capitolo delle richieste sindacali è quello che riguarda potenzialità e ruolo della contrattazione collettiva, come motore della lotta alle disuguaglianze e di una più equa distribuzione della ricchezza e come fattore determinante della crescita e del benessere generale. La nostra richiesta era e rimane quella di invertire la tendenza, invalsa da ormai due decenni, all’indebolimento e al depotenziamento della contrattazione collettiva. Al contrario, occorre restituire a essa la capacità di far crescere i salari e il reddito complessivo dei lavoratori e, in tal modo, immettere risorse nel ciclo economico attraverso l’aumento del potere d’acquisto. Come è chiaro, ciò richiede la promozione e il rilancio della dimensione collettiva della contrattazione e del grado di copertura degli accordi, oltre che l’inclusione nei contratti delle forme di lavoro precario e non standard e il contrasto ai fenomeni di individualizzazione delle condizioni e dei rapporti di lavoro.

Il terzo capitolo ha al centro la richiesta di politiche e di azioni concrete per l’inclusione nel mercato del lavoro delle donne, dei giovani e dei gruppi più vulnerabili, dai lavoratori atipici a quanti sono occupati nel lavoro informale e in quello irregolare. Riguardo a quest’ultimo aspetto, abbiamo reiterato le nostre storiche richieste affinché nelle catene della subfornitura e degli appalti sia garantita l’applicazione degli standard internazionali e i diritti umani previsti dai principi delle Nazioni Unite, dalle convenzioni Oil e dalle linee guida Ocse sulle multinazionali.

Allo stesso modo, abbiamo chiesto impegni tangibili per realizzare la strategia 25 by 25 sull’occupazione femminile e i principi – ancora lettera morta, pur essendo stati stabiliti nelle precedenti riunioni del G20 – su Youth Employment e sul dramma dei Neet, i tanti giovani che non lavorano, non studiano e non hanno percorsi di professionalizzazione. Non solo. Abbiamo anche chiesto che siano confermati gli impegni assunti nelle precedenti riunioni del G20 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e che venga attivato il processo per la creazione di un database in grado di coprire l’insieme di eventi, incidenti e malattie di lavoro, anche come base per politiche di prevenzione.

Di tutto ciò, al di là delle neutre frasi di circostanza sulla debolezza della ripresa e sulla persistenza dell’alta disoccupazione, nel documento finale del G20 resta una frase, il cui unico merito è che compare per la prima volta nelle conclusioni di un vertice di questo livello. I leader mondiali riconoscono che “la crescente disuguaglianza rappresenta un grave rischio per la coesione sociale e per gli obiettivi di crescita” e chiedono “ai ministri dell’Economia, delle Finanze e del Lavoro di rivedere le strategie per la crescita e i piani per l’occupazione al fine di rinforzare le iniziative contro la disuguaglianza”.

Di più. Facendo riferimento alle priorità precedentemente stabilite, ma non attuate, il documento riconosce – per quanto solo indirettamente – la necessità di rafforzare gli istituti e i servizi per il mercato del lavoro insieme al ruolo delle politiche salariali e della contrattazione collettiva. Il tutto, peraltro, senza alcun riferimento agli impegni dei singoli paesi a realizzare tali priorità, il che rende il testo privo di efficacia immediata e di vincoli. La stessa intenzione di voler ridurre la disoccupazione giovanile del 15% entro il 2025 resta un lodevole obiettivo dichiarato che, senza una strategia di azione concreta, rischia di rimanere sulla carta come quelli che lo hanno preceduto. Per non dire delle parti del documento riguardanti la crisi dei rifugiati e le questioni ambientali legate a Cop 21 e all’imminente conferenza di Parigi sul clima, che sono sostanzialmente descrittive e senza il coraggio e la visione necessari per affrontare adeguatamente queste sfide decisive per il futuro dell’umanità. 

Il bilancio del G20 ospitato dalla Turchia, in sostanza, è scarno e conferma ancora una volta come le proposte e le richieste del mondo del lavoro siano considerate dai leader del mondo come un poco rilevante corollario nell’agenda e nello svolgimento dei lavori. Il prossimo appuntamento è per il vertice del 2016 ad Hangzhou, in Cina. Ovviamente, speriamo in un cambio di passo, in un diverso e più stringente coinvolgimento delle rappresentanze del lavoro e in un risultato finale che non faccia, come oggi, dubitare circa l’utilità di questi incontri.

Fausto Durante è coordinatore dell’area politica europea e internazionale della Cgil