Ci sono le ragioni della propaganda politica. Esistono gli artifici della retorica. Ma poi ci sono i contenuti, il merito. Ebbene ogni volta che si cerca di scavare un po’ dietro la nuova giungla di norme che ha sostituito l’impianto del Diritto del lavoro italiano vengono alla luce perplessità, critiche e perfino allarmi. Evidentemente la Cgil non è sola nel denunciare l’attacco ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici e l’assenza di una politica seria per creare nuovi posti di lavoro.

Dietro la cortina fumogena mediatica e le semplificazioni inevitabili sullo scontro in atto, emergono sempre più spesso i giudizi critici degli addetti ai lavori, a partire ovviamente dai giuslavoristi. Non possiamo in questa sede riproporre una carrellata di tutte le posizioni che si sono espresse negli ultimi mesi (dal varo della prima tornata di decreti a marzo, fino a oggi) tra gli avvocati, i consulenti del lavoro, i professori e gli studiosi. Vogliamo concentrare l’attenzione invece su una intervista a Michele Tiraboschi, che abbiamo sentito subito dopo il varo degli ultimi quattro decreti da parte di Palazzo Chigi.

È critico anche il giudizio di Tiraboschi, che della materia è un vero cultore, vista la sua esperienza di studioso e di consulente dei decisori politici. Come si ricorderà, Tiraboschi ha collaborato alla scrittura di quella che poi è passata alla storia del diritto come la legge Biagi. I temi della precarietà del lavoro, della divisione tra garantiti e non garantiti, tra chi è dentro e chi è fuori dal sistema di regole gli sono molto noti. Tiraboschi conosce molto bene anche i problemi del legislatore, visto che è stato protagonista del dibattito sulle regole.

I dati sui nuovi assunti? Il bilancio del Jobs Act? È presto per dare un giudizio compiuto, ci ha detto Tiraboschi, ma qualcosa già si può dire se si cerca di andare oltre i rapidi comunicati stampa e i commenti a effetto dei dati statistici. E per andare “dietro” alle notizie sui nuovi dati Istat sulle assunzioni è bene ricordare prima di tutto quello che è successo nel mercato del lavoro italiano: un vero terremoto che, con la crisi iniziata nel 2008, ha lasciato sul campo morti e feriti.

In poco meno di 7 anni sono stati bruciati più di un milione di posti di lavoro. Nell’ultimo periodo sono stati recuperati circa 200 mila posti, sempre secondo quello che dice l’Istat. Ma è ancora poca cosa. Non si bilanciano le perdite con nuovi ingressi. Ma quello che dovrebbe essere considerato con molta attenzione è anche la qualità delle assunzioni. E infatti è lo stesso professor Tiraboschi a farci notare che uno dei pochi segmenti in crescita nel mercato del lavoro è quello degli over 50, come effetto del combinato disposto tra le nuove norme sul pensionamento (vedi legge Fornero) e il sistema degli incentivi. Sono invece letteralmente fermi i dati sull'occupazione dei giovani (fino ai 35 anni). Qui dunque la prima bolla mediatica. Le riforme non favoriscono affatto i giovani. La loro disoccupazione e il livello altissimo di inattività giovanile rimangono il punto non risolto.

Il Jobs Act non favorisce le assunzioni. Caso mai favorisce i licenziamenti. Anche Tiraboschi condivide quindi la critica sulle politiche del lavoro e le riforme. Anche questa volta invece di concentrarsi sulle politiche attive, sulle politiche di sviluppo e crescita, ci si è persi dietro l’ennesima discussione e polemica sulle regole del mercato. Da questo punto di vista è perfino fuorviante o comunque ormai vecchio il dibattito sulle differenze tra lavoro stabile e lavoro precario.

In realtà, con il Jobs Act si è portata a termine una campagna che dura da anni sul superamento del concetto di posto fisso. Da questo punto di vista anche i posti di lavoro stabili non sono più stabili. La vera filosofia che sta alla base del Jobs Act è intrinsecamente “liberista”. Si deve dare alle imprese la possibilità di licenziare più facilmente, perché poi spetta al sistema il compito di favorire la ricollocazione dei licenziati in nuovi posti.

Ma è qui che casca l’asino. Perché – a prescindere da qualsiasi tipo di giudizio ideologico – quello che manca alla riforma è proprio la seconda gamba: le politiche attive e di sostegno. Non è un caso che la parte che riguarda i nuovi ammortizzatori sociali, la formazione professionale, i nuovi centri per l’impiego, è ancora una nebulosa. Proprio sulle cose su cui si doveva andare più spediti il governo della velocità mostra di essere ancora troppo lento.

Una lentezza che diventerà un ritardo clamoroso nei prossimi mesi quando si esaurirà la spinta della decontribuzione che era stata decisa con la legge di stabilità dello scorso anno. I ritardi saranno ancora più pesanti perché la riforma del lavoro si è concentrata ancora una volta sulle regole. Nel resto del mondo non c’è invece tutto questo accanimento sulle regole del lavoro, ci ha spiegato Tiraboschi, che propone l’esempio della Francia, dove si sta discutendo un progetto di riforma diametralmente opposto al Jobs Act.

La riforma del lavoro francese vuole infatti limitare il ruolo della legge (le regole generali) per valorizzare la contrattazione collettiva. In un mercato del lavoro sempre meno standardizzato, è necessario favorire il più possibile il ruolo attivo delle parti sociali. Da noi invece, dopo 15 anni di discussioni e scontri sull’articolo 18, si parla ancora dei vincoli da togliere. Lo Stato si lava così la coscienza. Lo ha ammesso esplicitamente il premier Renzi: noi abbiamo fatto la nostra, ora le imprese non hanno più abili.

Ma intanto migliaia di giovani, migliaia di lavoratori “deboli” (come i disabili) continuano a rimanere fuori. Chi sta “dentro” sta sempre meno dentro. Chi sta fuori sta fuori. Da questo punto di vista in un momento di trasformazioni accelerate e di annunci di nuove forme di automazione del lavoro e di necessità di riqualificarsi continuamente nel corso della vita lavorativa, la riforma Renzi non appare per nulla moderna. Invece di guardare in avanti, si continua a guardare indietro, come il famoso angelo della storia di Benjamin.