Per capire il contesto in cui maturano il primo tentativo di cancellare l’articolo 18 e la straordinaria risposta della Cgil guidata all’epoca da Sergio Cofferati, la manifestazione del 23 marzo 2002, bisogna tornare alle elezioni politiche del 2001, al loro significato e alle conseguenze che ne derivarono. Il voto del 13 maggio, con la netta vittoria del centrodestra, segna il ritorno al governo di Silvio Berlusconi.

Un’affermazione che, al di là delle divisioni interne al centrosinistra, è essenzialmente il frutto dell’abilità politica del Cavaliere. All’inizio del nuovo decennio, Berlusconi è riuscito a coagulare intorno a sé, e con perizia ben più grande del ‘94, un composito fronte sociale in cui un ruolo decisivo è affidato alla piccola e media imprenditoria: a una parte della società italiana, fondamentale nella sua vita economica, che nell’economia globalizzata ha perso solidità e sicurezza.

È un mondo nuovo, ormai, quello che i protagonisti del “piccolo è bello” hanno davanti; ma l’italico genio, invece che sfidarlo, sembra averne paura. Occorrerà rimettersi ancora una volta all’uomo della provvidenza: chi se non il magnate di Arcore? A sancire il patto, prima delle elezioni, è l’assemblea nazionale della Confindustria di Antonio D’Amato (Parma, 16-17 marzo). E la strategia che ne seguirà sul piano sociale ruoterà intorno a due idee fisse: l’indebolimento dei diritti, la divisione dei sindacati. Su un terreno politico-simbolico più generale, una tragica importanza avranno poi, nel luglio, le giornate del G8 di Genova: la provocatoria gestione dell’ordine pubblico, la morte di Carlo Giuliani, l’assalto alla Diaz e le torture di Bolzaneto dicono del vero e proprio disprezzo di alcuni settori della nuova maggioranza per i diritti della persona.

Un brutto clima, dunque, che le paure associate all’11 settembre, l’attacco alle Torri gemelle, renderanno ancora più pesante. È in questo quadro che arriva la decisione del governo di aprire il fronte dell’articolo 18. Il disegno di legge delega sul mercato del lavoro, deliberato il 15 novembre da Palazzo Chigi, prevede per tre tipologie, e per quattro anni, una deroga alla norma dello Statuto dei lavoratori, che dispone il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa nelle aziende con più di quindici dipendenti. Le tre tipologie sono: i rapporti regolarizzati dopo la riemersione dal lavoro nero; i contratti a termine che diventino a tempo indeterminato; i rapporti di lavoro di imprese che vogliano superare i quindici dipendenti. Cgil, Cisl e Uil si oppongono e organizzano una serie di scioperi articolati.

Ma con il nuovo anno
– il 2002 – e davanti ai ballon d’essai lanciati dall’esecutivo, Cisl e Uil, pur continuando a mostrarsi contrarie a qualsiasi manomissione dell’articolo 18, si dicono disponibili a un tavolo sul mercato del lavoro. La Cgil, invece, che durante il XIV congresso (Rimini, 6-9 febbraio) ha fatto della difesa dell’articolo 18 il centro della sua azione, il 21 febbraio proclama lo sciopero generale per il 5 aprile (poi sarà il 16 e unitario), preceduto da una grande manifestazione nazionale a Roma, sabato 23 marzo. La macchina organizzativa di Corso Italia ha ormai perfezionato tutti i dettagli quando, il 19 marzo, le Nuove Brigate rosse, così come avevano fatto con Massimo D’Antona tre anni prima, uccidono a Bologna il giuslavorista Marco Biagi.

Già impegnato con il governo Prodi, ora consulente del ministro del Lavoro Maroni, Biagi è autore di un Libro bianco sul mercato del lavoro, in cui si formulano proposte in materia di flessibilità, duramente criticate dalla Cgil. Il suo pensiero sulla contesa in atto – ricorderà Stefano Zamagni in uno scritto per Il Ponte – era che il governo avesse sbagliato a inserire l’articolo 18 nella delega sul mercato del lavoro. All’attentato, Cgil, Cisl e Uil rispondono con uno sciopero generale di due ore il 20 marzo; e mentre in molti, nel centrodestra, fingono di non vedere la differenza tra lotte dei lavoratori e terrorismo, attaccando in maniera esplicita la Cgil e Cofferati, l’uccisione di Biagi aggiunge alla manifestazione di Roma un imperativo ulteriore: in piazza non solo per l’articolo 18, ma anche per la difesa delle istituzioni democratiche. Il 23 marzo, sole e tramontana, sono in tre milioni a manifestare nella capitale.

Dopo quanto è accaduto, non può essere più – come si era deciso – la festa dei diritti; resta però una giornata indimenticabile, un gigantesco, sereno no ai propositi del centrodestra. In seguito, con Cisl e Uil indispettite dall’ultima trovata di Palazzo Chigi – il nord escluso dall’abolizione dell’articolo 18 nel passaggio dal determinato all’indeterminato –, verrà lo sciopero generale del 16 aprile, otto ore, il primo a carattere unitario dopo vent’anni. Il governo è costretto a rivedere i suoi piani. L’obiettivo di dividere il sindacato, con un occhio all’articolo 18, però, rimane. E il 5 luglio Berlusconi otterrà il sì di Cisl e Uil al cosiddetto Patto per l’Italia. Una mossa di parte, l’esatto contrario di un serio impegno contro il declino del Paese.