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Giorgia Meloni ha sfoderato il latino con l’enfasi di chi apre un documentario di Superquark, ma lo ha fatto in Senato, parlando di difesa. “Si vis pacem, para bellum”, ha declamato con gravitas imperiale, come se fossimo ancora tra le colonne del Foro, con l’elmo e il gladio, e non in un mondo dove i conflitti si affrontano con trattati, mediazioni e diplomazia.
Per la presidente del Consiglio la serenità internazionale si ottiene affilando le armi. È la logica del piromane che tiene l’estintore in salotto: se brucia tutto, almeno abbiamo un bell’arnese da esibire. Ma davvero, nel 2025, la soluzione a tensioni globali sarebbe irrobustire l’esercito a suon di slogan bellicosi e ammiccamenti alla Nato?
Qualcuno dovrebbe rammentarle che, dai tempi dell’Urbe a oggi, qualche passo in avanti lo abbiamo fatto. E che forse uno Stato la cui Costituzione “ripudia la guerra” non dovrebbe mettersi a lucidare scudi, ma a tessere relazioni. Invece Meloni sembra più attratta dal mito di Roma antica che dal progetto europeo, più incline a evocare conquiste che a negoziare intese.
Questa nostalgia per il militarismo d’antan sa di incubo identitario: un’Italia fortino assediato da orde esterne – pardon, migranti – dove la pace è solo una tregua armata. Peccato che nel mezzo ci siano cittadini sfiniti, lavoratori precari e famiglie che combattono bollette, non battaglie.
In fondo, cara Giorgia, se vuoi davvero giocare con i classici, fallo con coerenza: Alea iacta est. Mentre tu sfogli il manuale del piccolo stratega globale, l’Italia tira i dadi e incrocia le dita. Ma qui nessuno ha più voglia di seguire la console donna-madre-cristiana verso il fronte, mentre restano incolti i campi veri: quelli del lavoro, della giustizia sociale, dei diritti. Se davvero vuoi la pace, allora costruiscila. Con investimenti, cultura, trattative. Non con i tamburi di guerra e le citazioni da calendario romano.