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Il grande illusionista del Cremlino torna in scena con la sua solita grazia da macellaio, offrendo a Zelensky un tè a Mosca con lo stesso tono con cui si invita l’agnello al banchetto pasquale. Un gesto di apparente apertura che in realtà sa di provocazione: l’ospite “gradito” deve varcare la soglia di casa altrui, disarmato e possibilmente già in ginocchio.
È la diplomazia secondo Putin: non un tavolo negoziale, ma un ring truccato. Il “meeting ben preparato” è un modo elegante per dire “portate le penne, che i coltelli li metto io”. E poi quella domanda retorica: “Ma ha senso incontrarlo?”, che suona come la beffa suprema: prima ti lusingo, poi ti delegittimo, il tutto davanti ai flash delle telecamere di Pechino.
In fondo, è la vecchia arte del paradosso del dittatore: offrire pace con la baionetta ancora calda, proporre dialogo mentre si accresce la lista dei morti. Una grammatica rovesciata in cui la parola “vertice” non significa intesa ma altitudine da cui far precipitare l’avversario.
Zelensky, dal canto suo, dovrebbe presentarsi? Sarebbe come accettare una cena sapendo che il menù prevede sé stesso come piatto principale. Una trappola studiata per fotografarlo non come presidente, ma come supplice.
Così Mosca recita la parte del padrone di casa generoso, mentre il messaggio vero resta inciso a fuoco: non c’è spazio per pari dignità, solo per chi entra riconoscendo già di aver perso. Un meeting sì, ma con il becchino.