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C’è un filo che lega le manette ai migranti nei sobborghi di Los Angeles al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca: è la vecchia retorica dell’ordine, servita con contorno di razzismo e presentata come piatto forte della sicurezza nazionale. Gli Stati Uniti assistono, di nuovo, alla criminalizzazione degli ultimi: lavoratori invisibili, madri senza documenti, giovani cresciuti in un Paese che oggi li caccia via come clandestini di troppo in una sceneggiatura già scritta.
Il tycoon, tornato al potere tra le fanfare dell’estrema destra, ha mantenuto le promesse: un’America blindata, addestrata alla paura, governata a colpi di retata. I raid a tappeto, la Guardia Nazionale per le strade, gli arresti a caso: tutto utile a scolpire l’illusione di un Paese forte, bianco, obbediente. Peccato che sotto la corazza dell’“ordine” batta il cuore della repressione.
Le proteste che esplodono da costa a costa non sono un capriccio woke, come sussurra Fox News, ma l’ultimo spasmo di una democrazia che tossisce prima di cedere il respiro. Basta poco per finire nel mirino: un cartello storto, un accento sospetto, un abbraccio troppo lungo. Accogliere un migrante significa essere un complice. Protestare ti rende un anarchico. Tacere equivale a essere già schedato.
Altro che politica migratoria: è un incubo travestito da reality, con la Casa Bianca che sembra un set di Squid Game. Trump dirige, i soldati eseguono, i civili corrono. Il copione è pronto, i ruoli assegnati e la democrazia viene riscritta con la grazia di un lanciafiamme usato per spegnere una candela.
Difendere i migranti oggi non è buonismo, ma puro istinto di sopravvivenza democratica. Quando la repressione diventa varietà del sabato sera, nessuno può dirsi spettatore. E chi oggi applaude scoprirà domani che per lo sceriffo in carica non esiste nessuno abbastanza bianco, abbastanza docile, abbastanza patriota da salvarsi.