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Nel pieno del caos mediorientale, con Gaza sotto assedio, Israele e Iran in rotta di collisione e il mondo che trattiene il fiato, l’Unione Europea si affida a un uomo il cui nome evoca più meme che mediazioni: Luigi Di Maio. L’ex campione del vaffa, già ministro degli Esteri per corrispondenza, oggi ci rappresenta nel Golfo Persico. Una scelta così surreale che neanche Kafka ci avrebbe messo la firma.
Il rappresentante speciale, infatti, è talmente speciale che nessuno lo vede. Forse studia la mappa dell’aria di crisi, forse cerca il wi-fi a Doha. Forse si è perso tra le pieghe del suo stesso curriculum, che da steward è passato a ministro passando per il “mai con il Pd” e poi anche con il Pd. Una biografia politica che pare scritta col pennarello indelebile sul vetro appannato.
Del resto, il talento c’è. Chi altri può dire di aver sostenuto i gilet gialli e la Nato, Maduro e Guaidó, la pace e le armi? In politica estera ha avuto lo stesso orientamento di una banderuola in una tromba d’aria. E ora è lì, in silenzio, a incarnare perfettamente l’identità comunitaria: ambigua, irrilevante, compiaciuta.
Eppure, nonostante l'assenza di risultati tangibili, l’ex apritore di scatolette di tonno continua a godere di una sorprendente longevità politica. Dopo aver promesso di abolire la povertà, ha effettivamente migliorato la propria condizione, assicurandosi incarichi prestigiosi e ben remunerati. La sua carriera sembra più un esercizio di sopravvivenza che di servizio pubblico, un’abilità nel navigare le acque torbide della politica senza mai bagnarsi.
Così, in un mondo in fiamme, Giggino rappresenta alla perfezione l’arte del restare in piedi senza lasciare traccia. L’uomo giusto al posto giusto: quello in cui non può nuocere, ma nemmeno incidere. Un simbolo perfetto dell’Europa che si limita a esserci, a presenziare, a non disturbare.