Nei primi anni della crisi iniziata nel 2008, si sentiva spesso ripetere “La crisi può diventare anche un’opportunità” per ripartire diversi e migliori quando si sarà conclusa. Non è andata così: i fatti testimoniano che in Italia non sono migliorate le condizioni del lavoro, lo sviluppo è rimasto piatto, la finanza ha continuato a svolgere un ruolo eccessivo e improprio, sono stati ridotti sanità e welfare. Anche in Europa, non sono certo migliorate le condizioni di coesione, le regole non sono state riformate, siamo attualmente alla chiusura di alcune frontiere e addirittura a problemi per il transito del materiale sanitario tra i diversi stati.

L’assoluta priorità immediata è superare l’emergenza sanitaria, ma la memoria di quanto è accaduto può e deve far riflettere su molte cose per non ripeterle. Una globalizzazione senza regole, un primato assoluto della finanza sul lavoro e sulla produzione, la mancanza di riferimenti giuridici internazionali tanto che si poteva leggere in bozze di accordi bilaterali tra diverse aree economiche di primato di imprese sugli stati; è stato il carburante di un sovranismo, di un’autodifesa goffa e assurda ma con consenso crescente di fronte al mancato governo politico delle istituzioni europee ed internazionali.

Eppure, molti di quelli che propagandavano quella cultura oggi, di fonte alle enormi difficoltà della pandemia iniziano a parlare di coordinamento, ruolo sovranazionale, necessità di non rimanere soli, di integrazione e collaborazione.  Se ne ricorderanno quando la crisi finirà? Il collante ideologico è stata l’esaltazione dell’individualismo, del più furbo che prevale rispetto agli altri. Oggi si torna a parlare di collettività, di regole e decisioni comuni e collettive (una parola che era stata bandita dal vocabolario di molti). È necessità – probabilmente - e non convinzione, ma se ne ricorderanno quando la crisi finirà? Sono aspetti fondamentali per riprogrammare una ripartenza non solo forte e vigorosa ma diversa.

Partiamo dall’Europa
Molti commenti si soffermano sui ritardi degli interventi europei. Per la verità, ci sono stati errori (anche gravi) iniziali, ma il livello degli interventi messi in atto a questo punto è alto. Quello che non convince è che tutte queste iniziative vengono accompagnate dall’inciso “Non saranno applicate in questa fase”. Sospendere il limite del 3% nel rapporto tra deficit e pil e del 60% tra debito e pil è vitale, ma non si può pensare che finita l’emergenza sanitaria si torni a prima. I debiti pubblici cresceranno, ma l’economia uscirà stremata da questa fase, e certo non si può pensare di riproporre le precedenti regole di rientro, sarebbe il colpo finale per molti stati e credo per l’Europa. Ecco perché, nella fase dell’emergenza, bisogna essere in grado non solo di garantire il necessario ma - contestualmente - ripensare e riscrivere regole anacronistiche. Vedremo anche cosa sarà deciso sul Mes e sui Coronabound, ma anche qui sarebbe un errore legare tutto e solo alla fase dell’emergenza sanitaria.

Infine, il nuovo quantitative easing e i finanziamenti della Bce: si moltiplicano le indicazioni sul fatto che la parte preponderante di queste risorse deve andare all’economia reale. Nella crisi precedente non è stato così, come si misura e si interviene stavolta per correggere se necessario in tempo reale questo andamento? Come si può avere maggiori certezze che l’acquisto delle obbligazioni emesse dalle aziende si traduca in quota parte in investimenti e produzione? Sono domande che hanno bisogno di risposte immediate.

Lavoro
Più volte si è ritornato sul concetto di utilizzo del lavoro come principale fattore della competizione di costo. Per farlo sono stati utilizzati strumenti diversi: retributivi, di qualifiche professionali, di addensamento nei livelli più bassi, ecc. ma soprattutto, si è utilizzato dinamiche del mercato del lavoro che hanno fortemente incrementato l’area del lavoro povero. Un uso molto esteso di part time involontario e tempi determinati (quasi 5 milioni di persone) che coabita con una disoccupazione ancora molto alta (poco meno di 3 milioni di persone) e con l’area dell’inattività più alta d’Europa, in cui si cela una quota importante di disoccupazione nascosta.

A questo adesso, si aggiungerà un fortissimo incremento nell’uso di ammortizzatori sociali, le ripercussioni delle possibili chiusure di tante piccole imprese e un futuro molto incerto per i tantissimi contratti a tempo determinato (i primi che ricordo pagarono la crisi del 2008) che via via arrivano a scadenza e per le partite iva. Non si può costringere in condizioni difficilissime milioni di persone e penalizzare i consumi anche quando la crisi finirà. Adesso, è necessaria ogni forma di tutela per attenuare il danno, ma anche in questo caso contemporaneamente all’emergenza va programmato un accordo fra governo, sindacati e imprese, che affronti il problema e a cui legare i finanziamenti pubblici.

Consumi e fiducia delle persone
Questa situazione cambierà molte cose, non solo sulla fiducia delle persone rispetto al futuro, ma sul modo stesso di interpretare la nuova realtà. Mi soffermo solo su uno di questi aspetti, quello relativo ai consumi. Nella crisi precedente la mancanza di risorse e l’aumento della povertà portarono a tre fenomeni contemporanei: un calo dei consumi in termini complessivi; un cambio delle abitudini nell’utilizzo di generi, in particolare alimentari, nel rapporto tra prezzo e qualità; una forte diminuzione degli scarti. Non ci sono ancora dati sulla situazione attuale se non che si conferma il comportamento di diminuzione degli scarti. Adesso, siamo nella fase di paura e dell’accaparramento, ma cosa succederà dopo? È uno dei dati essenziali per programmare le scelte future in un paese che fa del made in Italy un fattore fondamentale della propria economia.

Produzione
Un lungo capitolo potrebbe riguardare l’economia, la produzione (manifatturiera, costruzioni, di servizio e consumo, agricola e alimentare, culturale, turistica, mobilità, ecc.). Non lo affronto, ogni titolo richiederebbe un capitolo a sé, ma l’attuale situazione mente a nudo tante delle nostre arretratezze, a partire dalla diffusione e dall’accesso nei territori alle nuove tecnologie.

Abbiamo più volte affermato che serve una dose straordinaria di investimenti (pubblici e privati), per una parte rilevante immediatamente cantierabili. Ci troviamo al centro, e la crisi sanitaria la ritarda ma non la modifica, di una straordinaria fase di innovazione tecnologica, energetica ed ambientale. Dobbiamo - nonostante tutto - tenere in relazione questi aspetti, nell’interesse delle persone e del lavoro. Allora, mentre immediatamente si deve dare credito alle imprese per continuare le attività, si deve investire scegliendo le opere immediatamente cantierabili, si deve ridare risorse e ruolo alla ricerca; occorre anche dotarsi di una prospettiva di fondo per oggi e domani.

Questa crisi riporta in primo piano la sanità e il welfare come elementi fondamentali di una comunità ma anche come possibili motori dello sviluppo futuro. Oggi, nessuno oserebbe negarlo, non è stato così nel passato e non dovrà essere dimenticato ma anzi, fortemente incentivato, nelle future scelte economiche e sociali dell’Italia, dell’Europa e del mondo. Altro elemento dirimente che emerge con forza dall’attuale situazione è il ruolo del pubblico, degli spazi comuni e della comunità. Una delle conseguenze logiche è rappresentata dall’ambiente, non solo dalla sua tutela ma anche in questo caso come elemento centrale dello sviluppo futuro. Ripartiamo da qui per attuare e progettare una nuova fase dell’economia mondiale. È un compito gravoso, una responsabilità enorme dei governi, della politica, delle forze economiche e sociali, ma non dobbiamo lasciare nulla di intentato.