“Che impresa per i giovani restare in Puglia” è il titolo dell’iniziativa che la Cgil regionale ha tenuto oggi (23 marzo) a Martina Franca, in provincia di Taranto, mettendo al centro della riflessione il tema dell’emigrazione giovanile. Il comune della Valle d’Itria, secondo l’indagine curata ad agosto scorso da L’Espresso su dati Istat, è tra i comuni pugliesi dove più alto è stato l’esodo nell’ultimo decennio, con una perdita di oltre l’11 per cento di ragazzi e ragazze tra i 18 e i 30 anni. In totale, tra le prime cinquanta città italiane per cancellazione dall’anagrafe di under 30, ben tredici sono pugliesi, e ventimila i giovani emigrati dal 2008. “Un dato che per noi misura il fallimento delle politiche messe in campo negli ultimi venti anni per il Sud e per il lavoro”, ha commentato il segretario generale della Cgil Puglia, Pino Gesmundo. Che ha aggiunto: “Sulle imprese sono piovuti miliardi di euro tra incentivi e defiscalizzazioni e il lavoro creato è molto al di sotto delle aspettative, e quasi sempre precario e povero. Non è così che si offre una prospettiva ai giovani e non è così che si risolleva socialmente ed economicamente il Mezzogiorno”.

La campagna “Passa in Cgil”
Nel corso dell’iniziativa pubblica, dove in una tavola rotonda si sono confrontati sindacato, università e imprese, conclusa dal segretario nazionale della Cgil Giuseppe Massafra, la confederazione regionale ha presentato i risultati di una indagine sulla condizione dei giovani in Puglia promossa dal dipartimento Politiche giovanili attraverso la somministrazione di un questionario. “Abbiamo in primo luogo voluto costruire un quadro chiaro della condizione giovanile in Puglia attraverso la voce di chi oggi ne è protagonista – spiega la responsabile del Dipartimento, Maria Giorgia Vulcano –. In secondo luogo munirci di uno strumento di verifica circa la nostra azione di rappresentanza e organizzazione delle figure precarie, che stiamo promuovendo con una campagna informativa che abbiamo chiamato Passa in Cgil”. L’indagine per Vulcano è stata prima di tutto utile a demolire “un po’ di luoghi comuni sulle nuove generazioni, che hanno ingiustamente trovato spazio e largo consenso nel sentire comune. I ragazzi e le ragazze che hanno aderito raccontano di uno spaccato, che abbraccia due generazioni, in cui il senso di frustrazione e la voglia di riscatto camminano di pari passo, nonostante il proliferare di formule e formulette contrattuali che rendono precari sul posto di lavoro e nella vita. I dati dicono chiaramente che oggi per un under 35 nella nostra regione le opzioni sono o lavorare senza contratto, o lavorare senza essere pagati, o lavorare essendo sottopagati”.

Lo studio sulla condizione giovanile in Puglia
“Era da dieci anni che non si conduceva una rilevazione così importante sui giovani pugliesi”, ha spiegato il sociologo Leo Palmisano, che assieme a Valentina De Maria ha curato la lettura dei dati emersi dai questionari. Lo studio ha riguardato quasi 400 intervistati di tutte le province fino a 35 anni di età, lavoratori ma anche studenti. “Emerge un grande senso di altruismo; i giovani, anche se studiano, lavorano o vorrebbero lavorare, per affermare indipendenza e sostenere le proprie famiglie, altro che bamboccioni”. Solo l’11 per cento degli studenti intervistati non cerca lavoro. Emerge un giudizio poco positivo su scuole e università, definite “poco organizzate, poco vicine agli studenti, lontane da realtà dei giovani, poco aggiornate, in sostanza non adeguate”.

Tra i lavori principalmente svolti prevalgono quelli nella ristorazione, come addetti alle vendite o all’amministrazione. Quanto ai contratti, il 33 per cento dichiara di lavorare in nero. Tra chi ha un contratto il 60 per cento è parasubordinato, ed emergono le varie forme precarie dei rapporti: dall’apprendistato al lavoro a chiamata, dalla somministrazione agli stage. Il 64 per cento degli intervistati è poco o per niente soddisfatto della propria remunerazione: il grosso dei lavoratori percepisce al di sotto degli 800 euro, e una metà di questi non va oltre i 500 euro mensili. Alla domanda cosa ti aspetti dal futuro, il 12 per cento pensa di andar via dalla Puglia o dall’Italia, 40 su cento rispondono “veder migliorata la mia condizione”. Il 30 per cento di chi è in cerca di lavoro lo fa da più di un anno e senza esiti. E se la metà lo cerca principalmente scandagliando gli annunci on line, un terzo degli intervistati ammette di rivolgersi alla rete parentale e delle conoscenze. Quanto al rapporto con il sindacato, il 35 per cento è iscritto e lo motiva con la tutela dei diritti, tra chi invece non è iscritto il 34 per cento afferma di non saperne nulla e oltre il 40 risponde “perché per il mio lavoro non serve”.

Sindacati, imprese, università: coordinare azioni di sviluppo.
“Se in Italia si assumono meno laureati rispetto al resto dell’Europa – ha spiegato Francesco Prota, docente di Economia dello Sviluppo dell’Università di Bari, intervenendo alla tavola rotonda – è perché le imprese per struttura dimensionale e specializzazioni produttive ne richiedono pochi. L’università offre competenze orizzontali, ma il collo della bottiglia è altrove, la domanda di lavoro di bassa qualità chiama in causa il sistema Paese”. Per Pierpaolo Pontrandolfo, delegato del Politecnico di Bari e tra i componenti della cabina di regia nazionale di Industria 4.0, “le università sono state abituate a lavorare in contesti internazionali, questo forse ha creato nel passato una cesura con i territori. Serve invece costruire un ecosistema forte, che aiuta la formazione e deve essere ricettivo dei giovani formati. Noi dobbiamo essere attori di innovazione del tessuto produttivo per innalzare la qualità della domanda di lavoro delle imprese”. Puntare sull’autoimprenditorialità è invece la proposta del presidente di Confindustria Taranto, Vincenzo Cesareo: “Premesso che il nostro sistema è in prima linea per sostenere la formazione post universitaria, per andare incontro alle necessità delle imprese, costruendo competenze specialistiche direttamente in azienda e aprendo all’innovazione, abbiamo sempre detto però che è vero che il lavoro si cerca, ma il lavoro si può anche creare. E questo lo possono fare anche i giovani impegnati in percorsi formativi”.

Per Carmelo Rollo, presidente di Legacoop Puglia, “quel che manca è un progetto di condivisione tra tutti gli attori. Il mondo della cooperazione fa il proprio ruolo, spinge a mettersi assieme per costruire opportunità di lavoro. Gli strumenti ci sono anche, penso a Resto al Sud, che è un'opportunità che si dà ai giovani del Mezzogiorno per provare a mettere su una propria idea di impresa partendo dalle vocazioni del territorio”. Gesmundo ha voluto ricordare come “non è vero poi che tutti possono andare fuori a studiare per costruire il proprio sapere in territori più ricettivi. Perché non tutte le famiglie possono permetterselo. E questo è un altro elemento di sperequazione. Poi va detto che la fuga non interessa solo i cervelli ma anche tante braccia. Come Cgil lo diciamo da tempo: la questione giovanile sta dentro quella più ampia delle condizioni di sviluppo della regione e del Mezzogiorno. Non raccontateci la favola che basta un po’ di turismo, un po’ di agricoltura e qualche start up. Se viene già l’Ilva a Taranto significa ventimila posti di lavoro. Occorrono allora investimenti sul versante industriale, un’industria che sia sostenibile. Ma di politiche industriali non se ne sono viste da due decenni”.

Massafra: invece dello sviluppo torna la schiavitù
È  partito da alcuni numeri per le sue conclusioni il segretario nazionale della Cgil. “La disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni è al 40 per cento. E quel che c’è di lavoro è precario. La dispersione scolastica al Sud supera il 20 per cento, quasi il doppio della media europea. Sono 2 milioni i giovani Neet, e sempre nel Mezzogiorno è fortissimo il fenomeno della over education, dove se hai più competenze vieni svalutato. È da tutto questo che scappano i nostri giovani”. Allora occorre investire sul lavoro di qualità, “perché altro che mito della flessibilità che ci avrebbe reso tutti più liberi. La realtà è che siamo di fronte e forme di neo-schiavitù: non lo è forse la condizione che ti obbliga a lavorare per molte ore per pochi euro? O quella in cui a organizzare il tuo lavoro è un algoritmo? Ancora, quella di dover stare a casa aspettando una telefonata del tuo datore di lavoro per sapere se oggi puoi lavorare. Dobbiamo rimettere al centro il lavoro e la persona. L’occupazione deve essere accompagnata da forti investimenti su competenze e profili culturali. Se l'Italia vuole stare nella via alta della competizione. Anche per governare e non subire quei processi di innovazione e trasformazione che ad esempio ci impone industria 4.0”.