Continua il braccio di ferro tra indipendentisti catalani e sostenitori dell’unità della Spagna. Ieri (3 ottobre) si è svolta a Barcellona la huelga general (a cui le Comisiones Obreras catalane hanno partecipato – non aderendovi formalmente – nella forma di una “fermata civica”) contro gli atti di repressione e di violenza nei confronti degli elettori del referendum di domenica 1° ottobre. “Anche se il grado di sindacalizzazione in Spagna è molto più basso rispetto all’Italia, per motivi storici ed economici, i sindacati restano le organizzazioni più numerose, con il maggior numero di associati ed è quindi inevitabile che al loro interno ci sia una grande varietà di opinioni, tra contrari e favorevoli all’indipendenza – spiega ai microfoni di RadioArticolo1 Armando Ferrari, coordinatore del patronato Inca Cgil in Spagna –. In ogni caso questo non era uno sciopero per motivi lavorativi, ma civili, e quindi non c’era alcun motivo perché i lavoratori pagassero di tasca propria. Se le aziende erano d’accordo sul fatto che bisognasse fermare la Catalogna, avrebbero dovuto mettere la loro parte e chiudere”.

 

L'anomalia è sotto gli occhi di tutti – rincara la dose Guido Iocca, direttore di Rassegna Sindacale, all’inizio degli anni ottanta corrispondente per il Manifesto dalla Spagna –. Comisiones Obreras e Ugt non hanno aderito allo sciopero, oltre che per la loro contrarietà alla decisione di proclamare l’indipendenza in maniera unilaterale, per il semplice motivo che a indirlo non sono stati i sindacati, bensì un’entità governativa, la Generalitat, o comunque quel movimento che attorno a essa si sta muovendo da qualche tempo in appoggio a questa ondata di iniziative a favore dell’autodeterminazione”. “Ma la verità – prosegue Iocca, entrando maggiormente nel merito dei motivi che hanno portato alla dura contrapposizione tra Madrid e Barcellona – è che quello in atto tra governo spagnolo e Generalitat è uno scontro tra due diversi radicalismi, due nazionalismi poco propensi al dialogo: da un lato quello centralista-statalista, da sempre nemico di qualsiasi concessione alle richieste di maggiore autonomia provenienti dalle diverse realtà territoriali del Paese; dall’altra un micro-nazionalismo che sembra prediligere, e non da oggi, il muro contro muro per sostenere le proprie rivendicazioni”.

Se è vero – prosegue il direttore di Rassegna – che Mariano Rajoy è il principale responsabile dall’affossamento dello Statuto catalano del 2006, che aveva come principale obiettivo quello di regolare in modo condiviso l’autonomia e che avrebbe potuto effettivamente disinnescare la bomba catalana, è a dir poco singolare il clima da tifo a cui assistiamo da qualche tempo anche a casa nostra. Un atteggiamento assurdo e senza senso, che si ripete regolarmente in occasione delle crisi che scoppiano sullo scenario internazionale. In particolare, fa impressione il tifo che proviene da taluni ambienti della sinistra. Sembra che scatti una sorta di riflesso pavloviano ogni volta che si sente parlare di indipendentismo, per cui si è portati a identificare qualsiasi lotta in questa direzione con la lotta di un popolo oppresso”. Niente di più sbagliato, sottolinea Iocca: “Cominciamo col dire che la lingua catalana si parla ovunque, nelle scuole, nelle università e nella televisione autonoma, Tv3, sul cui ruolo ci sarebbe da discutere a lungo. Su altri versanti, non si può non considerare il fatto che la Catalogna è la locomotiva dell’economia spagnola, con il 20% del Pil e un tasso di disoccupazione attorno al 13%, molto più basso che nel resto del Paese iberico. La verità è un’altra, e cioè che dal 2008, con l’inizio della crisi economica, si è diffusa, soprattutto nella classe dirigente catalana, un’insofferenza per la tassazione da parte di Madrid, ed è nata in molti l’aspirazione a gestire in autonomia le risorse fiscali, ritenendo la quota assegnata alla Catalogna troppo alta. Quanto di meno solidaristico si potrebbe pensare”.

Un ragionamento che trova d’accordo Ferrari: “È vero, non esiste una situazione di sopruso che realmente possa essere considerata grave. Dietro allo scontro in atto c’è senza dubbio una rivendicazione storica, ma è anche vero che negli ultimi sei-sette anni alle richieste di tipo fiscale si sono sommate quelle sociali, soprattutto tra i giovani, che appoggiano principalmente la scelta repubblicana, convinti che un nuovo Stato permetterebbe di ricominciare da zero e creare una società molto orientata al sociale, ai servizi, all’ecologia, al femminismo. Bisogna vedere se poi tutto questo succederà veramente. Se alla fine vinceranno le istanze di questi giovani, e non quelle di chi dirige dall’alto delle istituzioni questo movimento. Personalmente, ho al riguardo un certo scetticismo”.