Cosa contraddistingue una campagna di comunicazione sociale? Quali sono le regole da seguire e con quali criteri vengono scelte parole e immagini? A giudicare dall’effetto boomerang che si è creato intorno al trending topic #FertilityDay, immediatamente dopo la diffusione delle locandine commissionate dal ministero della Salute per promuovere la cultura della fertilità, si può dire che non è stata seguita alcuna regola, soprattutto di buon senso. Perché la maternità è una cosa seria e andrebbe trattata con garbo e delicatezza. In un paese che si fregia di essere civile, andrebbe garantita l’assistenza alle donne non solo prima e durante la gestazione, ma anche dopo, quando forse ce n’è ancora più bisogno, perché la condizione di madre deve conciliarsi con tutto il resto della vita, non da ultimo con il lavoro.

Tutte sfaccettature e tutti risvolti che sono ignorati se il messaggio istituzionale che si lancia è limitato all’ansia del tempo scandito da un presunto orologio biologico, se si misura la creatività individuale e di coppia con la capacità di procreazione e se, da ultimo, si considera la fertilità un bene comune. Non lo è affatto, un bene comune: la scelta di fare o non fare figli, in che momento e con quale modalità, sono questioni private che certamente meritano di essere tutelate dal pubblico e non da esso determinate. L’altro ieri, nel giro di poche ore, sui social è accaduto un vero putiferio. Giustamente. I motivi della polemica sono diversi e investono più livelli. Va detto e riconosciuto che il Fertility Day non è di per sé un’iniziativa negativa. Nell’ipotesi in cui la giornata del 22 settembre fosse stata immaginata come un’occasione per fare informazione medica e orientamento per le donne che desiderano procreare, allora non ci sarebbe stato tutto questo sdegno.

Ecco, piuttosto che puntare il dito contro le donne che non si sbrigano a fare figli – e, implicitamente, contro quelle che magari per scelta o per destino non lo hanno fatto –, quello di cui c’è bisogno nel Paese reale è che le donne siano assistite attraverso politiche lavorative mirate, facilitate nei congedi parentali, nell’accesso ai contratti part time nei primi anni di vita dei bambini, garantite dai ricatti delle dimissioni in bianco e del mobbing. In più, se oltre a questo, si favorissero anche le aperture di asili nido aziendali, male proprio non sarebbe. L’ipocrisia di questa campagna è tutta qui: le implicazioni collaterali dell’essere madri non sono contemplate. Generare una vita è bello e nobile, ma non è un dogma. Che senso ha gridare slogan che hanno il sapore di “donne fate figli e fate in fretta” se poi quelle stesse donne vengono pagate meno dei colleghi uomini a parità di lavoro?

Ma oltre alla questione professionale, non va trascurato della vicenda nemmeno l’aspetto puramente sanitario e assistenziale: sono state previste agevolazioni per ticket e corsie di prenotazione preferenziale negli ospedali e nelle Asl per far fronte ai controlli pre-parto? Lo sanno la ministra Lorenzin e il suo staff che una coppia spende mediamente 1.200-1.500 euro per le visite e gli esami standard, ma che se la gravidanza è più complessa, se è necessario fare ecografie fetali ripetute a distanza ravvicinata, o servono medicinali appropriati per il rischio abortivo, la cifra sale, e pure di molto? In molti ci saremmo aspettati un focus su tali questioni e non annunci grossolani e sbrigativi. Raccontare la fertilità e le sue difficoltà in modo sensibile è possibile: prova ne sia l’invito che ha rivolto in questi giorni alle donne l’associazione non profit Gemme Dormienti Onlus con il contest “Cultura e arte in tema di preservazione della fertilità”. Magari, prendendo spunto da progetti e dall’estro artistico di coloro che la fertilità e l’infertilità la vivono in prima persona, alla prossima occasione i creativi istituzionali riusciranno a non far irritare nessuno.