Oggi l’antimafia a Corleone rischia di scontare la crisi e la perdita di credibilità in cui si è venuta a trovare in Sicilia, dopo i casi che hanno coinvolto gli esponenti di Confindustria Roberto Helg, Antonello Montante e Ivan Lo Bello, il magistrato Silvana Saguto e, in ultimo, il direttore di Telejato Pino Maniaci. Proprio il caso Maniaci ha scosso profondamente l’opinione pubblica corleonese, che da anni seguiva le sue performance televisive, apprezzandone il coraggio ruvido e ruspante. Dallo studio di Telejato sono passati tanti giovani volontari dei campi di lavoro antimafia, gestito dalla coop “Lavoro e non solo”, e tanti di loro hanno letto anche i telegionali-fiume del funambolico personaggio.

Se è vera l’accusa di estorsione a suo carico, dovranno provarlo i giudici. Per certi versi, dal punto di vista etico, è tuttavia più grave la prova emersa dalle intercettazioni, da cui appare evidente che Maniaci ha spacciato per intimidazione mafiosa la notizia dei suoi due cani uccisi, mentre sapeva benissimo che così non era. Forse si può essere superficiali e guasconi al bar sport con gli amici, non lo si può se si rappresenta l’idea di un’antimafia seria e rigorosa in cui tanta parte di opinione pubblica – prevalentemente giovane – si riconosce. Ecco, la colpa gravissima di Maniaci, magari penalmente non rilevabile, è proprio quella di aver tradito la fiducia di tanti giovani che credevano in lui. Con un riverbero molto negativo in una città come Corleone, in cui il direttore di Telejato era “di casa”.

Oggi Corleone non è più “capitale della mafia”, come negli anni sessanta, ma non è più nemmeno “capitale contadina”, come è stato nel periodo dei Fasci siciliani, alla fine dell’Ottocento, e con il movimento di lotta per la terra guidato da Placido Rizzotto, nel secondo dopoguerra. Con alti e bassi, ha provato (e prova) a opporsi alla mafia che ancora c’è, nonostante i grandi boss come Totò Riina, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano siano ormai da anni in carcere a scontare numerosi ergastoli. Ha sviluppato un movimento antimafia di cui, pian piano, l’Italia e l’Europa hanno cominciato ad accorgersi. Ma dal 19 gennaio al 19 aprile di quest’anno, il Comune di Corleone è stato sottoposto a una rigorosa ispezione da parte del ministero dell’Interno, finalizzata a verificarne i pericoli di infiltrazioni mafiose.

Le operazioni “Grande Passo”, portate avanti dalla Procura distrettuale antimafia di Palermo dal 2014 a oggi, hanno dato un colpo tremendo alla mafia corleonese, riportando in carcere l’attuale reggente del mandamento, Rosario Lo Bue, e i suoi fiancheggiatori. E stanno facendo luce anche sui rapporti “poco chiari” tra mafiosi ed esponenti dell’amministrazione cittadina, coinvolgendo anche il sindaco Leoluchina Savona. Non a caso, quest’anno la Cgil non ha voluto celebrare insieme al Comune l’anniversario dell’assassinio di Placido Rizzotto, scatenando la reazione stizzita del sindaco, che per tutta risposta le ha negato la piazza. Adesso si aspettano gli esiti dell’indagine del ministero dell’Interno, che potrebbero decretare lo scioglimento degli organi istituzionali del Comune. La preoccupazione dei cittadini è che un simile esito possa vanificare quanto di positivo si è cercato di costruire negli ultimi anni.

In questo contesto, può sembrare paradossale che all’ingresso del paese, sotto la tabella toponomastica “Città di Corleone”, sia affissa un’altra targa, voluta dal sindaco, con la scritta “Corleone capitale mondiale della legalità”. Ironia involontaria o antimafia-spettacolo? “Di fronte a storie come queste – ha detto con amara ironia Franco, il figlio di Pio La Torre – mi viene da dire che se fossi un mafioso mi organizzerei la mia bella associazione antimafia…”. Si riferiva al crollo delle icone antimafia in Sicilia e alle macerie che questo crollo sta provocando. Il pericolo, ora, è che anche a Corleone si scivoli verso una sempre più diffusa perdita di credibilità, nonostante la città abbia una storia antica di antimafia sociale e la radicata presenza di cooperative che lavorano sui terreni confiscati alla criminalità organizzata, dando a questa lotta molta concretezza.

Nell’immaginario collettivo la nascita dell’antimafia – sottolinea Enzo Ciconte, docente universitario, storico e profondo conoscitore della criminalità organizzata in Italia – viene fatta coincidere con Falcone e Borsellino. Non è così. Il movimento nasce in Sicilia con le lotte contadine contro il latifondo. In quegli anni la mafia uccide sindacalisti, socialisti e comunisti. Le icone non bastano, non può essere una sfida solitaria, un movimento ha senso se è di popolo, corale. Può vincere se contende alla mafia il consenso nel territorio, giorno dopo giorno”. Si tratta di indicazioni molto interessanti. Meno spettacolo e più sobrietà, meno personalismi e più impegno collettivo: come facevano il movimento contadino e i suoi capi dalla fine del diciannovesimo secolo al secondo dopoguerra. Solo così l’antimafia sociale può riconquistare credibilità e consenso.

La Camera del lavoro di Palermo ha deciso di ricordarli tutti, uno per uno, quei capi contadini – molti dei quali furono assassinati da Cosa nostra –. Il 1° maggio è stata la volta delle vittime della terribile strage di Portella della ginestra. Lunedì prossimo (16 maggio), al giardino della memoria di Ciaculli e poi a Sciara, insieme al segretario generale della Cgil Susanna Camusso, ricorderà Salvatore Carnevale, “l’angelo senza ali” raccontato da Carlo Levi, dal poeta Ignazio Buttitta e dal cantastorie Ciccio Busacca.