La proposta di legge per la riforma del Terzo Settore è un’altra volta alla Camera dopo il via libera del Senato. A circa due anni di distanza dalla presentazione del disegno di legge da parte del governo siamo ancora a “metà del guado”. Non basterà infatti approvare definitivamente la legge, poi il governo dovrà emanare i decreti delegati per attuarla.

Sulla riforma c’è stato scarso dibattito, e perlopiù rinchiuso nella cerchia degli addetti ai lavori. Si tratta di una sottovalutazione incomprensibile, visto che il settore svolge attività sociali ed economiche per milioni di cittadini, occupa quasi un milione di dipendenti (direttamente quasi 700mila addetti, più 300mila lavoratori esterni) e vede operare oltre 4 milioni e mezzo di volontari.

Un settore cruciale per la natura del nostro welfare e quindi per i diritti sociali da garantire, per il ruolo del volontariato, per la partecipazione attiva e responsabile dei cittadini come componente essenziale della stessa democrazia. Ma, soprattutto, quella che sta per uscire sembra essere una riforma senz’anima. Manca un disegno più complessivo in cui inserirla: sullo sviluppo dell’economia sociale e del volontariato, su come contribuisca all’evoluzione del welfare in senso più universalista e più equo. E anche su quali forme e strumenti dare alla partecipazione dei corpi intermedi alla vita sociale ed economica (che non si risolve con la Consulta del Terzo Settore).

Ma forse la mancanza di un disegno esplicito non è casuale. Il testo approvato al Senato mantiene contraddizioni e criticità e, pur tuttavia, accoglie alcune osservazioni unitarie di Cgil, Cisl e Uil, con le quali avevamo espresso forti preoccupazioni sulla “deriva commerciale” impressa al Terzo Settore e in particolare sulla disciplina dell’impresa sociale. E sul rischio conseguente che logiche di mercato irrompano nei servizi del welfare, già duramente colpiti dai tagli alla spesa per la protezione sociale.

Del nuovo testo approvato ci soffermiamo sulle questioni principali.

• Impresa sociale: c’è stata una parziale correzione dell’iniziale, preoccupante, impostazione  mercantile. È sulla disciplina dell’impresa sociale che il disegno di legge aveva introdotto le novità più insidiose. Ora invece qualcosa è successo. Sono consentite forme di remunerazione del capitale sociale, ma che assicurino la prevalente destinazione degli utili al conseguimento dell’oggetto sociale, assoggettate a condizioni e comunque nei limiti massimi previsti per le cooperative a mutualità prevalente; e vi è il divieto di ripartire eventuali avanzi di gestione. La stessa destinazione degli utili è finalizzata al conseguimento degli obiettivi sociali. Infine, sono esclusi (per il momento) ampliamenti delle attività dell’impresa sociale, che avrebbero aperto le porte di fatto a qualsiasi tipo di impresa. Per quanto riguarda l’inserimento dei lavoratori svantaggiati, viene ora prevista una graduazione dei benefici finalizzata a favorire le categorie maggiormente svantaggiate (ciò per evitare un’allargamento indistinto della platea).

• Per essere riconosciuti come enti del Terzo Settore non basta svolgere attività senza fine di lucro, ma si devono possedere finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Ciò per evitare che enti commerciali – solo perché svolgono alcune attività senza fine di lucro – possano approfittare delle agevolazioni per gli enti no profit, con evidenti vantaggi anche per le restanti attività lucrative.

• Gli enti del Terzo Settore sono tenuti al coinvolgimento dei lavoratori, con gli obblighi di rendicontazione, di trasparenza e d’informazione. Nel testo precedente questi diritti dei lavoratori erano incredibilmente omessi.

• Sempre sugli aspetti lavoristici, per gli appalti pubblici è stato introdotto l’obbligo di “garantire condizioni economiche non inferiori a quelle previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro adottati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative”. Sicuramente è una formulazione più avanzata di quella contenuta nel vecchio testo, tuttavia non è ancora sufficiente per garantire il rispetto dei diritti. Tanto più in un settore dove fenomeni di sfruttamento e irregolarità sono, come sappiamo, frequenti. Qui insistiamo perché i contratti di lavoro siano connessi con le attività oggetto dell’appalto e sull’introduzione di clausole sociali.

• Importante è la norma sull’affidamento di servizi agli enti del Terzo Settore: vi sarà l’obbligo di rispettare standard di qualità e impatto sociale, con criteri e modalità per la verifica dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni.

• Infine, è davvero sconcertante l’emendamento, voluto dal governo all’ultimo momento, per creare una Fondazione (denominata Fondazione Italia Sociale). Si tratta di un’ipotesi mai discussa, la cui finalità è tutt’altro che chiara. E che oltretutto disegna un welfare filantropico senza diritti sociali esigibili, non essendo accompagnata dalla definizione del pilastro principale delle politiche sociali, cioè i Livelli essenziali delle prestazioni adeguatamente finanziati. Un sub-emendamento ha limitato la proposta iniziale del governo, fissando alcuni vincoli che confermano il ruolo non sostitutivo rispetto al welfare pubblico.

Anche in questo caso si rivela quanto resti contraddittoria e ambigua la direzione di marcia della riforma. Da una parte, sembra confermare il ruolo peculiare del settore no profit: terzo, appunto, rispetto a Stato e a mercato. E dall’altra, sembra incoraggiare un arretramento delle responsabilità e delle funzioni pubbliche e, peggio ancora, un“esclusiva” delle imprese (sociali e addirittura profit) nella produzione di servizi. Mentre i sostenitori del welfare society sanno bene che il Terzo Settore non chiede meno Stato (cioè istituzioni pubbliche): anzi, ne reclama un ruolo più autorevole e democratico.

Stefano Cecconi è responsabile politiche della salute e Terzo Settore Cgil nazionale