Anche Apple ha una lista. E il 13 gennaio l’ha rivelata per la prima volta. È l’elenco dei suoi principali fornitori di hardware: oltre 150 fabbriche della catena produttiva di computer, iPad e iPhone vari disseminate nel mondo. Specialmente in Cina e nel Sudest asiatico. Nel suo documento di responsabilità sociale, l’azienda di Cupertino ammette (nero su bianco) casi di sfruttamento del lavoro, orari inadeguati, lavoro minorile, test di gravidanza somministrati alle operaie (è successo in 24 fabbriche), danni ambientali e assenza di norme sulla sicurezza in molti stabilimenti del suo universo di esternalizzazione.

Alcuni lo definiranno timido, altri grosso, ma è comunque un passo avanti della Mela più famosa del mondo rispetto ai “no comment” dietro ai quali si trinceravano i suoi manager – Steve Jobs incluso – quando qualcuno provava a chiedere loro cosa stesse accadendo alla Foxconn o in luoghi analoghi.

Apple rivendica 229 sopralluoghi (audit) condotti nel 2011 entro la sua operazione di trasparenza: l’80% in più rispetto al 2010, segno che i suicidi degli operai Foxconn, l’attenzione dei media e di artisti come Mike Daisey hanno pungolato l’azienda californiana a darsi da fare.

Dal report emerge che il 38% delle aziende controllate non rispetta l’orario di lavoro standard di Apple, che è comunque alto per fabbriche e catene di montaggio: massimo 60 ore di lavoro a settimana. Apple lamenta cattive condizioni di lavoro soprattutto tra i suoi fornitori in Malesia e Singapore.

Questa lista, secondo la società, raccoglie più del 97% della spesa di Apple in approvvigionamento per i materiali, in produzione e assemblaggio di iPad, iPhone, iPod, MacBook e vari altri prodotti in tutto il mondo.

"Vorrei eliminare totalmente ogni caso di lavoro minorile", ha dichiarato il Ceo di Apple Tim Cook, evidenziando il tema che scotta di più per un’azienda che produce oggetti adorati dai bambini fino ai limiti dell’ipnosi. L’azienda sostiene che i casi di lavoro minorile nelle fabbriche del suo indotto sono “scesi significativamente” nel corso del 2011. Ma sulla base di quali certezze? La stessa Apple, infatti, ammette nel suo report che "andando in profondità nella filiera dell’indotto, abbiamo scoperto che il metodo di verifica dell'età non è abbastanza sofisticato”. Nonostante i difetti del sistema, sono emersi 13 stabilimenti dove si faceva ricorso al lavoro minorile. E chissà quanti casi aspettano di emergere.

In una email inviata al personale, Cook ha annunciato l’adesione di Apple alla Fair Labor Association. "un'organizzazione senza scopo di lucro dedicata al miglioramento delle condizioni per i lavoratori di tutto il mondo – ha spiegato Cook -. Il gruppo incaricato della FLA avrà accesso diretto al nostro indotto e le loro conclusioni saranno pubblicate autonomamente sul loro sito web". Una forma di certificazione esterna, insomma, rispetto alle indagini avviate internamente.

Tra le “scoperte” ammesse da Apple spicca, come si diceva, il superlavoro: in 93 fabbriche oltre il 50 per cento dei lavoratori ha superato il limite settimanale di 60 ore per almeno una settimana sulle 12 monitorate. Gli operai hanno lavorato per più di sei giorni consecutivi almeno una volta al mese e 37 strutture erano prive di un sistema di controllo del lavoro adeguato.

Inoltre 18 fabbriche chiedevano analisi per l’epatite B al momento dell’assunzione, e oltre 50 erano prive di norme che vietassero l’uso di analisi mediche come discrimine per assumere o no.

Salari bassi sono stati riscontrati in 42 stabilimenti (e anche pagamenti ritardati e assenza di buste paga). 108 fabbriche non pagavano correttamente gli straordinari e i giorni festivi. In 67 fabbriche Apple ha scoperto trattenute sullo stipendio come misura disciplinare. C’è poi il problema dei migranti (da Filippine, Vietnam, Thailandia, Indonesia) forniti alle fabbriche da agenzie di reclutamento che taglieggiano gli stessi operai intascando mesi e mesi di stipendio. L'elenco è lungo. Ma ora Apple sa cosa deve fare.