È la maledizione del 40, colpisce le donne e le inchioda a una anzianità in povertà. Quaranta sono i miliardi che in meno l’Inps eroga in assegni previdenziali alle donne rispetto agli uomini; 40% circa è la media del differenziale previdenziale mensile tra pensionate e pensionati, e solo il 41% dell’occupazione è donna. Questi alcuni dei numeri contenuti in uno studio dal titolo Analisi dei divari di genere del mercato del lavoro e nel sistema previdenziale elaborato su impulso del Civ dell’Inps. Roberto Ghiselli, presidente del Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Istituto nazionale di previdenza sociale, ragiona con Collettiva sulle cause di questi divari e sugli interventi che occorre mettere in campo per arginare uno scenario che già oggi destina alla povertà le anziane e che potrebbe assai peggiorare in futuro.

Donne due volte penalizzate, nel lavoro e poi nelle pensioni?

Purtroppo è così e non solo per le pensioni liquidate anni fa. Anche nelle più recenti si registra un importo medio assai inferiore a quello degli uomini. I fattori che determinano questo gap sono diversi. Innanzitutto l’occupazione femminile è concentrata in settori con retribuzioni basse. Le donne sono segregate in alcuni comparti del settore dei servizi (dove nel 2022 il tasso di femminilizzazione è di circa il 79% nella sanità, il 77% nell’istruzione, il 53% negli alloggi/ristorazione) e sono invece sottorappresentate nel settore manifatturiero (30% circa). Non solo, svolgono mediamente mansioni più basse dei colleghi, anche quando sono impiegate in altri settori, e ai livelli apicali di carriera le donne sono pochissime. Incidono però anche altri due fattori, innanzitutto la discontinuità occupazionale: le donne entrano ed escono dal lavoro a secondo dei carichi di lavoro di cura e così a parità di anni maturano meno contributi. E poi il part-time involontario che le riguarda prevalentemente. Quindi la penalizzazione nel mercato del lavoro determina penalizzazione previdenziale.

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E il sistema contributivo non aiuta

No, non aiuta e oramai vale quasi per tutti e tutte. Nel sistema retributivo gli ultimi anni di lavoro, di solito quelli con le retribuzioni più alte, pesavano molto nella determinazione dell’assegno previdenziale. Ora no, contano i contributi versati e – lo dicevamo – a parità di anni di età le donne accumulano meno contributi: la media degli uomini è 38 anni di contributi accumulati, per le donne si ferma a 28. Questo significa che oltre a maturare assegni più bassi per le lavoratrici l’età di pensione aumenta sempre di più. Non solo, quelle andate in pensione con il sistema retributivo hanno avuto l’integrazione al minimo, nel contributivo non è più così. Quindi, la prospettiva è quella di povertà pensionistica soprattutto per le donne.

Facciamo un passo indietro. Nonostante sia aumentata, l’occupazione femminile è bassa.

Nel corso degli ultimi dieci anni, la percentuale di donne impiegate nel settore privato è aumentata ma poco; il tasso di femminilizzazione, calcolato come la percentuale di donne lavoratrici rispetto al totale degli occupati, è passato dal 40,6% nel 2010 al 41,7% nel 2022. Ovviamente il confronto con gli altri paesi Ocse è davvero impietoso.

Se questo è lo scenario, le future anziane sono destinate alle povertà. Cosa mettere in campo per arginare questa prospettiva?

Cominciando dall’inizio, occorre aumentare il numero di donne al lavoro, soprattutto garantendo salari dignitosi. Quindi bisogna intervenire soprattutto sulle politiche che favoriscono pari opportunità: nell’accesso al lavoro e nel lavoro. E servono interventi sugli strumenti di conciliazione, dai congedi parentali per donne e uomini, rendendoli obbligatori anche per questi ultimi, e aumentando i servizi all’infanzia e per la cura delle persone anziane o non autosufficienti. Occorre poi pensare anche a una diversa organizzazione del lavoro che consenta il lavoro di cura. Penso ad esempio a uno smart working ben utilizzato. Insomma c’è bisogno di misure che aumentino l’occupazione femminile in tutti i settori, che facilitino loro il consolidamento in occupazioni stabili e la progressione di carriera.

Parliamo del lavoro di cura che sembra ancora essere uno degli elementi di penalizzazione per le donne

Proprio per questo sostengo che occorra individuare strumenti che facilitino una equa distribuzione del lavoro di cura tra i generi, sia che si tratti dei figli che degli anziani. Ovviamente questo vale soprattutto in prospettiva. Per l’oggi, e anche per il futuro, è necessario che il lavoro di cura esercitato in ambito familiare sia riconosciuto dal punto di vista previdenziale. Da tempo i sindacati chiedono il riconoscimento di un anno di contributi per ciascun figlio. Lo stesso ragionamento vale per l’assistenza a familiari non autosufficienti: la proposta sindacale prevede 1 anno di contributi ogni 5 come caregiver.

I provvedimenti che ha preso questo governo con legge di bilancio 2024 in materia previdenziali aiutano o penalizzano ulteriormente le donne?

I provvedimenti adottati con questa legge di bilancio hanno pressoché bloccato i sistemi di uscita flessibili dal mercato del lavoro, da quota 103 con il calcolo contributivo, all’innalzamento dei requisiti per l'Ape sociale, fino all’ulteriore rimaneggiamento di Opzione donna che già l'anno scorso era stata modificata prevedendo che le donne potessero utilizzarlo soltanto in alcune situazioni, e che è ulteriormente penalizzante per le donne. Ed è utile sottolineare che visti i requisiti e la difficoltà ad accumulare contribuiti, per gli uomini sarà ancora possibile andare in pensione con l’anzianità contributiva avendo più facilità di raggiungere i 41 anni di versamenti, mentre per le donne sarà – e già è – inevitabile uscire con la pensione di vecchiaia che oggi è a 67 anni e per il futuro sarà calcolata sull’aspettativa di vita. Insomma già oggi si verifica che in una coppia l’uomo vada in pensione a 62/63 anni di età con l’anzianità contributiva e la moglie debba aspettare di compiere i 67 anni per accedere a quella di vecchia.

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