Nel 2017 le retribuzioni medie italiane nella statistica dell’Ocse sono pari a 29.214 euro lordi annui, in lievissima crescita rispetto al 2001, in diminuzione rispetto al 2010 e rispetto al biennio 2015-2016. Il divario nei livelli retributivi rispetto alle altre economie non solo è ampio, ma si è andato allargando dal 2010 in poi. Le retribuzioni annue tedesche, infatti, sono cresciute in modo consistente negli anni più recenti; in Francia, e in misura più contenuta, anche in Olanda e Belgio, se sono calate nel 2017 registrano comunque una crescita rispetto all’inizio degli anni 2000. Simile a quello italiano si presenta il caso della Spagna. È quanto emerge dal nuovo report della Fondazione Di Vittorio (qui in versione completa) che mette a confronto le retribuzioni del lavoro dipendente in Italia con quelle delle altre cinque maggiori economie dell’Eurozona, utilizzando dati elaborati dall’Ocse.

Il dato retributivo medio è stato calcolato dalla stessa Ocse riportando tutte le retribuzioni a un impiego continuativo full-time. Procedura che consente di ottenere un dato omogeneo e confrontabile fra i diversi Stati, ma che non tiene conto degli effetti negativi sia sulle condizioni individuali, sia di come la forte crescita di lavori temporanei e part-time incida sul dato generale. “Il part-time italiano infatti – precisa il presidente della Fondazione Di Vittorio Fulvio Fammoni – è fortemente cresciuto negli ultimi anni prevalentemente nella sua componente involontaria e ha una penalizzazione sulla retribuzione oraria molto più alta della media europea (70,1% rispetto al lavoro full time, contro l'83,6). Così come, incide fortemente la crescita della discontinuità nel lavoro degli oltre 3 milioni di lavoratori temporanei”.

Questo comporta che circa 4,3 milioni di lavoratori dipendenti hanno una retribuzione lorda fino a 10 mila euro l’anno e, tra questi, 2,4 milioni di persone arrivano solo a 5 mila euro. “Si conferma – commenta Fammoni – che il divario negativo italiano sullo sviluppo non può essere riconducibile alle retribuzioni; il problema risiede invece, come anche l’Istat certifica nel suo ultimo report sull’andamento del Pil, principalmente nella carenza di investimenti pubblici e privati che determina la bassa crescita e il ristagno della nostra base produttiva e occupazionale”.

Ad accompagnare il report della Fondazione Di Vittorio c’è anche un commento della segreteria confederale Cgil: “I dati in esso contenuti – affermano Tania Scacchetti, Ivana Galli e Gianna Fracassi in una nota congiunta – confermano purtroppo le analisi che da tempo proponiamo alla attenzione pubblica e rendono evidente la grande questione salariale che esiste nel nostro Paese. Una questione che insiste in una condizione di elevatissimi tassi di disoccupazione e di lavoro sommerso. Non solo la stagnazione italiana non ha eguali in Europa, ma è evidente che le tendenze nella composizione del mercato del lavoro, in cui sono crescenti lavoro povero e discontinuo, il part-time involontario e il lavoro poco qualificato, aggraveranno tali divari”.

Lo studio che indaga sulle retribuzioni è utile anche in relazione alla discussione che si è aperta sul salario minimo legale orario, proposto come strumento di contrasto innanzitutto al lavoro povero. “Come abbiamo potuto affermare nel corso di un’audizione alla Camera – concludono Fracassi, Galli e Scacchetti – il tema che è urgente affrontare, più che i minimi orari, riguarda i bassi salari medi, oltre che gli alti tassi di evasione ed il dumping crescente specie in alcuni settori. Dati che, oltre alla necessità di far ripartire gli investimenti e un piano straordinario per l’occupazione, rendono prioritario affrontare la questione fiscale. Non è più rinviabile, anche per il peso del carico fiscale sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, una riforma che affronti il tema della redistribuzione a favore dei salari e recuperi il principio della progressività con interventi correttivi delle gravi disuguaglianze generatesi anche durante la crisi”.