L’unica buona notizia è che ad aprile 2025 l’Istat registra un calo del tasso di disoccupazione al 5,9%, il dato più basso dal 2007. Un numero che a prima vista potrebbero far pensare a un’Italia che lavora di più, che si sta finalmente scrollando di dosso l’etichetta di “malata cronica del lavoro”. Ma basta guardare appena oltre la superficie per scoprire che non tutto ciò che brilla è occupazione di qualità.

La trappola del lavoro povero

Nonostante l’aumento degli occupati (+282 mila su base annua), la crescita riguarda in larga parte forme di impiego precarie, sottopagate o incapaci di garantire una vita dignitosa. I dipendenti permanenti crescono, ma diminuiscono drasticamente i contratti a termine (−173 mila), mentre aumentano gli autonomi (+110 mila), una categoria che in Italia spesso nasconde forme di autoimpiego forzato, freelance sottopagati e partite Iva “mascherate”.

Molti contratti stabili, inoltre, lo sono solo sulla carta: si tratta spesso di impieghi part-time involontari, con orari ridotti non per scelta, ma per necessità aziendali. E dietro il calo della disoccupazione si nasconde un dato inquietante: cresce il tasso di inattività, ora al 33,2%. Sempre più persone, semplicemente, smettono di cercare lavoro. Non perché non ne abbiano bisogno, ma perché hanno perso fiducia.

Lavoro sì, ma senza salario dignitoso

I salari in Italia restano tra i più bassi d’Europa. Secondo i dati Eurostat, nel 2023 il nostro Paese era uno dei pochi paesi Ue in cui i salari reali erano scesi rispetto al 2008. Una tendenza che la ripresa post-pandemica non ha invertito, e che oggi si accompagna a un’inflazione ancora elevata nei beni essenziali.

Aumentano gli occupati, dunque, ma non diminuiscono i working poor: oltre tre milioni di italiani hanno un lavoro ma restano sotto la soglia di povertà. E il salario minimo, promesso da anni, rimane una chimera, osteggiata da chi invoca la “contrattazione collettiva” ma accetta contratti pirata e stipendi da fame.

I giovani tra stage infiniti e mobilità obbligata

Per i giovani, il lavoro in Italia è sempre più una corsa a ostacoli. Gli under 35 sono costretti ad accettare tirocini, contratti a tempo, collaborazioni occasionali, senza alcuna prospettiva di stabilità. Le aziende chiedono esperienza, ma non la offrono. E chi non si adegua è costretto a partire: ogni anno oltre 30 mila giovani laureati lasciano il nostro Paese per cercare altrove ciò che qui viene loro negato.

La disoccupazione giovanile è in calo, ma in che modo? Cresce l’inattività, aumentano gli scoraggiati. I numeri migliorano solo perché si riduce il denominatore: meno giovani cercano lavoro, molti nemmeno si iscrivono più ai Centri per l’impiego.

Il paradosso del “record”

Certo, avere meno disoccupati è meglio che averne di più. Ma festeggiare questi dati come un successo senza guardare alla qualità del lavoro è un errore grave. L’Italia sta costruendo una nuova normalità fondata su bassi salari, precarietà strutturale e diseguaglianze crescenti.

Serve un cambio di rotta, ripete da tempo la Cgil: “Un piano per il lavoro stabile e dignitoso, investimenti pubblici e privati in settori strategici, un salario minimo legale, un freno alla proliferazione dei contratti-civetta”. Solo così potremo dire, davvero, che l’Italia ha ricominciato a lavorare.