I lavoratori di Mercatone Uno sono tornati a Roma, mercoledì 24 luglio, per raccogliersi in via Molise, sotto le finestre del Mise. La chiusura dei punti vendita comunicata sui social, la loro cessione annunciata a mezzo stampa e in più una cassa integrazione fantasma, calcolata sul part-time degli ultimi mesi di gestione Shernon, invece che sul full time di anni di lavoro: non sono poche le umiliazioni subite dai 1.800 dipendenti dell’azienda, che ci hanno raccontato di sentirsi logorati, mortificati, traditi, svenduti, ma che non hanno ancora rinunciato a sperare.

Ornella, provincia di Ferrara

Lavoro nel negozio di San Giuseppe di Comacchio. Siamo tutti disperati, è la parola giusta. La cassa integrazione non è ancora arrivata, siamo senza stipendio, ci sono anche delle coppie tra noi che lavorano insieme, e lì è un dramma.
Non ci ascoltano, il ministro Di Maio al primo incontro era stato molto pragmatico, aveva individuato le cose importanti e urgenti da fare, ma all’incontro successivo non si è presentato, ha lasciato tutto in mano ai suoi, e loro hanno risposto no, come hanno fatto poi i commissari, come ha fatto l’Inps: non possiamo tornare al nostro contratto precedente.
È stata una grande delusione questo ministro, si è tirato indietro, non si presenta, non dà udienza ai sindacati e di coseguenza non parla con noi. Non sappiamo cosa vogliono fare. Vorremmo ci fosse la possibilità di reinvestire sui negozi, di farli aprire, perché a noi interessa il nostro lavoro, non la carità: la cassa integrazione va bene per tamponare i mesi a casa, ma noi vogliamo tornare a lavorare, anche perché si sa bene, siamo quasi tutti tra i 45 e i 55 anni, e trovare un altro lavoro è impossibile nella nostra zona, men che meno nel basso ferrarese. E comunque un po’ dappertutto.
Siamo molto preoccupati, dopo i sei mesi di cassa integrazione ci aspettano due anni di naspi, e poi fine. È un patrimonio che rischia di andare perduto: siamo 1.800 persone, ci sono 50 punti vendita, solo nella provincia di Ferrara ce ne sono tre per una novantina di dipendenti, 450 in tutta l’Emilia Romagna. È importante far tornare a vivere questi negozi e conservare tutti questi posti di lavoro, per noi e per il territorio.

Lidia, Monfalcone

Ho lavorato al Mercatone per 13 anni. Abbiamo scoperto che il Mercatone Uno chiudeva attraverso i social. Non essendo sicuri di una notizia comunicata in questo modo, l’indomani mattina abbiamo mandato un messaggio al nostro capo area per sapere se dovevamo aprire il negozio, e lui ci ha detto di no.
L’unica cosa che siamo riusciti ad ottenere finora è stata la cassa integrazione, che però è stata calcolata sulla base del nuovo contratto di lavoro, quello introdotto dall’azienda subentrata l’anno scorso, vale a dire un contratto part-time. Ed è così che lavoratori che per 20 anni – ad esempio - hanno lavorato 38 ore a settimana, si sono trovati negli ultimi mesi a lavorare dalle 24 alle 28 ore e hanno avuto una cassa integrazione calcolata sul part-time.
Qualcuno, come me, ha chiesto di essere licenziato, per poter entrare in Naspi, aprire una partita Iva ed iniziare una nuova attività autonoma utilizzando il tfr, ma non è stato possibile neanche questo. Dopo il passaggio a part-time, con 20 ore di lavoro alla settimana, la mia cassa integrazione ammonta a circa 400 euro al mese: come posso mantenere la famiglia con questa cifra? L’azienda è stata chiusa il 23 maggio e ad oggi ho percepito solo 30 euro. Ho 33 anni e vorrei rimettermi in gioco, ma non posso farlo, sono costretta ad aspettare.

Laura e Andrea, Pesaro

Lavoro nel negozio della mia città da 23 anni, nel reparto hi-fi ed elettrodomestici. Il Mercatone per me è la mia vita. Io e il mio compagno lavoriamo insieme, nello stesso negozio, ci siamo conosciuti lì. Venerdì abbiamo lavorato, come sempre, e sabato mattina ci è arrivato questo messaggio su whatsapp a cui non potevamo credere: diceva che il negozio era chiuso e non dovevamo presentarci al lavoro. È stata una doccia fredda. Fino a una settimana prima l’amministratore delegato ci mandava mail personali, addirittura video, nei quali ci diceva di stare tranquilli, che stavano preparando la nuova collezione, che stava lavorando per noi, sette giorni su sette. E noi siamo stati tranquilli, pur vedendo che la merce cominciava a scarseggiare, non arrivava, e i clienti cominciavano ad arrabbiarsi con noi. Dai piani alti ci dicevano di tranquillizzare anche loro, che sarebbe andato tutto bene, e noi abbiamo raccontato queste bugie – che per noi erano la verità - a clienti ventennali, storici, che incontravamo anche in giro per la città e finivano per prendersela con noi.
Avevano dato gli stipendi fino all’ultimo mese, non ci aspettavamo una cosa così improvvisa. Sono 28 anni che lavoro lì dentro, al magazzino. Subito dopo l’annuncio della chiusura c’è stato l’incontro qui, al Mise, ma sono passati due mesi e non si è ancora visto niente, neanche la cassa integrazione, che è stata calcolata sulle 20 ore che abbiamo avuto negli ultimi mesi e non sulle 38 dei nostri anni di lavoro. Oggi siamo qui per chiedere anche questo: io ho avuto un contratto full time per 28 anni, Laura per 23, vogliamo una cassa integrazione adeguata. Ho cominciato a lavorare al Mercatore a 20 anni, subito dopo il militare, è stato il lavoro della mia vita. 
I nostri colleghi hanno tutti più o meno la nostra età, lavoravamo lì in media da 20 anni, era come una famiglia, perché la maggior parte del tempo si passa al lavoro. E ora ci ritroviamo così, spiazzati. Cerchiamo di essere positivi, ci sosteniamo a vicenda e vediamo come va. Continueremo a sperare, fino alla fine, e se andrà male ci rimboccheremo le maniche e ricominceremo.

Lea, Castegnato

Ho 43 anni e lavoro al Mercatone da 15. Sono un’insegnante, ma mi sono innamorata di questo lavoro e ho deciso di continuare.
Ma è stata una delusione dopo l’altra, una tristezza infinita. Abbiamo passato tre anni in amministrazione straordinaria che sono stati durissimi, in cassa integrazione parziale, con stipendi ballerini, che ci venivano pagati solo se in cassa c’era liquidità. Anni senza prospettiva per il futuro.
Quando ci è stato detto, qui al ministero, nel maggio dello scorso anno, che la nostra azienda era stata ceduta, abbiamo tirato un respiro di sollievo. Una sensazione che è durata poco. Il cambio di proprietà ha comportato una serie di rinunce: il passaggio da full time a part-time – di 20, 24 o 28 ore a seconda del reparto – la rinuncia agli scatti di anzianità e a tutti i premi che vevamo acquisito negli anni.
Ci erano state promesse tante cose. Siamo passati alla nuova azienda il 10 agosto, ma a ottobre non avevamo visto nulla, nessun cambio all’interno dei negozi, se non la divisa nuova con il fiocco giallo, unica novità. La merce cominciava a scarseggiare, io lavoravo all’ufficio clienti e seguivo gli ordini e ho iniziato a chiedere spiegazione dei forti ritardi nelle consegne la risposta dei fornitori era sempre la stessa, raggelante: non avevamo pagato le fatture, c’era un blocco amministrativo e non c’erano date di consegna per noi. Così abbiamo cominciato di nuovo a vivere nella paura, perché ormai lavoravamo con questa azienda che non avevamo scelto noi, ma il Ministero dello Sviluppo economico.
Questa cosa non mi darà mai pace, non mi capacito del fatto che un ministero abbia potuto sottoscrivere un passaggio del genere. Abbiamo saputo del fallimento dai giornali. Noi di Castegnato in quel momento non avevamo un direttore in negozio, lo mandavamo avanti in autogestione, con grande responsabilità. Quel giorno abbiamo aperto i nostri negozi come ogni altro giorno, non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione nella mail aziendale, abbiamo chiuso e siamo andati a casa: alle 23.30 la prima pagina della sentenza di fallimento è stata pubblicata su facebook e da lì ha cominciato a girare.
Mi è mancato il fiato, mi sono dovuta sedere. Sono stata una di quelle che ci ha creduto tantissimo e che ha lottato per questa azienda. Ci sentiamo lavoratori delusi, traditi, beffati, svenduti. Siamo logorati da questa lunga storia, disicantati. È uscito il nuovo bando di vendita ed entro il 31 ottobre dovrebbe presentarsi un nuovo acquirente, ma la prima volta ci abbiamo impiegato tre anni e facciamo davvero fatica a credere che adesso sia possibile trovare un nuovo compratore. Mi sento proprio abbandonata. Non è possibile che oggi, in Italia, accadano cose del genere, sotto il controllo del Ministero dello Sviluppo economico.

Renzo, Bologna

Lavoro al Mercatone dal 2010, da quando ha aperto il punto vendita Navile, a Bologna. All’inizio devi stralavorare, sono quelle aziende grandi in turnover, però poi alla fine, una volta stabilizzato, è un lavoro che ti piace e che fai con passione. Non ci è mai stato contestato che non lavorassimo bene, siamo lavoratori a cui piace lavorare e non ci siamo mai risparmiati.
In questi anni abbiamo subito due fallimenti: siamo un’azienda fallita, ma sana, perché in realtà i fallimenti sono stati causati da gestioni fraudolente e non certo dal cattivo funzionamento dei negozi. Adesso speriamo in questo nuovo bando di vendita della nostra azienda. E mi auguro che il sindacato abbia una parte adeguata in questa trattativa, che possa difendere e tutelare gli interessi dei lavoratori. Ci speriamo tutti, perché non c’è molto altro lavoro in giro.
Io ho un mutuo da pagare, che per fortuna al momento è stato sospeso, ma in ogni caso non è possibile vivere così. Le alternative disponibili sono 15 giorni, 20 giorni, tutto tempo determinato: come si fa ad arrivare a 67 anni con 15 giorni di lavoro ogni tre mesi? E nel frattempo sopravvivere.
Siamo tutti in un’età critica per una ricollocazione, e speriamo che questa trattativa vada a buon fine, in modo serio questa volta, e non come è successo per quella passata.