Nel 2022 in Italia è cresciuto il numero dei lavoratori dipendenti, ma sono cresciuti molto di più i posti di lavoro precari e di conseguenza anche le disuguaglianze. L’ultimo Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato pubblicato dall’Inps scatta una fotografia precisa con dati che non lasciano spazio a dubbi. È di più 4,3% la quota complessiva di operai, impiegati, quadri, dirigenti, apprendisti (esclusi gli agricoli e i domestici) con almeno una giornata retribuita nel 2022 rispetto al 2021: 16.078.425 per la precisione, che hanno percepito in media 22.839 euro all’anno per 244 giornate lavorate, sempre in media.

In pratica, si è tornati ai livelli precedenti alla pandemia da Covid-19, quando la caduta della produzione e dei consumi nel 2020 aveva fatto registrare un calo sensibile, e c’è stato anche un avanzamento rispetto al 2019. Queste le buone notizie. Passiamo alle cattive. Dei 16 milioni citati prima, i tempi indeterminati censiti dall’Inps sono 12.403.792, il 3% in più; i dipendenti a tempo determinato, 3.923.644, registrano un più 6,9% rispetto al 2021; gli stagionali sono 650.989, con un più 13%.

Questi ultimi, i lavoratori a tempo determinato e gli stagionali, hanno retribuzioni medie annue molto più basse degli altri: rispettivamente 10.441 euro per 155 giorni lavorati in media, e 8.022 euro per 144 giorni. In effetti, tra i dipendenti del settore privato solo il 53, 4 per cento percepisce una retribuzione pari a un anno intero.

“L’osservatorio dell’Inps conferma i numeri crescenti di alcuni indicatori del mercato del lavoro, che erano attesi, e conferma in modo evidente due cose – spiega Rossella Marinucci, che si occupa di mercato del lavoro e politiche attive in Cgil -: la qualità del lavoro che si sta creando è bassa e le disuguaglianze stanno aumentando. Due cose che sono strettamente collegate tra loro. Le differenze salariali sono tra Nord e Sud, tra uomini e donne, tra adulti e giovani, tra comunitari ed extracomunitari”.

E sono impressionati: il gap tra il salario medio degli uomini e quello delle donne ha raggiunto quota 8 mila euro all’anno. E se al Sud non si arriva a 17 mila euro, al Nord si guadagnano 10 mila euro in più. Gli adulti lavorano 250 giornate all’anno contro le 79 dei giovani sotto i 20 anni, e le 177 di chi ha 20-24 anni, disparità che si ripercuote naturalmente sui salari. Il 36,5% dei lavoratori extracomunitari si posiziona nelle prime due classi di importo della retribuzione annua, cioè al di sotto dei 10 mila euro.

“La questione generazionale è terribile – prosegue Marinucci - e non si affronta né si cerca di risolverla, nonostante sia una priorità per tutti: la differenza di salario tra adulti e giovani è dovuta al numero di giornate ma anche e soprattutto alla qualità del lavoro che questi ultimi riescono a ottenere, per lo più part-time e stagionale. La qualità ha come effetto principale la differenza salariale”.

L’osservatorio Inps conferma questa lettura: “La retribuzione media annua risulta significativamente differenziata sia per età sia per genere – si legge nel report -. Nel 2022 è pari nel complesso a 22.839 euro, aumenta al crescere dell’età, almeno fino alla classe 55–59 anni, ed è costantemente più alta per il genere maschile: 26.227 euro contro 18.305 per le femmine”.

Le donne guadagnano molto meno perché quasi la metà ha un contratto part-time e trova occupazione nei settori a retribuzione più bassa, con stagionalità o con una fragilità intrinseca. “Mentre i settori più stabili e con contratti di lavoro meglio retribuiti e meno precari sono principalmente a occupazione maschile – prosegue la sindacalista -. Basta incrociare i dati. Il part-time aumenta per tutti, ma in particolare continua a essere una forma prevalente di assunzione per le donne, unico strumento di conciliazione dei carichi extralavorativi, familiari e di cura”.

Dietro ai numeri quindi c’è la precarietà che avanza e che colpisce sempre i soliti. C’è tanto lavoro per i boomer, per gli over 50, mentre le opportunità per giovani e donne sono di breve periodo o a tempo parziale, al limite del lavoro povero.

“L’aumento dei contratti a tempo indeterminato c’è, ma c’è anche un aumento delle forme precarie, specie nelle nuove attivazioni – conclude Marinucci -: il nuovo lavoro che si crea è più precario che stabile. Questo dimostra che, oltre a sottolineare con tanta enfasi i tassi positivi ogni trimestre, andrebbero fatte delle scelte per superare i problemi atavici del nostro mercato del lavoro, che si stanno accanendo soprattutto su alcune categorie”.