Il rapporto del Fondo monetario internazionale (Fmi), presentato in occasione del World economic forum 2024 di Davos, analizza l’impatto sul lavoro dell’intelligenza artificiale. Chiaramente non dà numeri di dettaglio, nessuno potrebbe, visto che ci troviamo in una fase in cui sperimentiamo i primi effetti di una tecnologia non ancora “matura” e siamo nella fase in cui ancora scelte diverse possono determinare l’andamento del mercato del lavoro.

Il dato macro, però, merita già un primo commento: sapere che questa tecnologia, ancora in fase di sviluppo applicativo, di perfezionamento e diffusione, impatterà sul 60% dei lavoratori delle economie avanzate e sul 40% dell’occupazione globale dà la misura di quanto si dovrà affrontare, il bisogno di regole certe condivise e di lavorare a una programmazione per indirizzare la trasformazione in corso.

Sarebbe anche poco “intelligente” porre l’intelligenza artificiale fuori da quel processo complessivo di trasformazione, la transizione digitale, che ha iniziato a produrre i propri effetti sul lavoro da anni, come sarebbe sbagliato non tenere conto della transizione ambientale, che determinerà un altro impatto rilevantissimo sul mondo del lavoro.

Bisognerebbe quindi, se si vuole affrontare il cambiamento in corso, ragionare sul lavoro avendo a mente l’insieme dei fenomeni di trasformazione, anche perché sappiamo che l’innovazione tecnologica è un supporto indispensabile per rendere sostenibile la transizione ambientale.

Come emerge dal report del Fmi, ma anche dalla nostra analisi empirica, l’innovazione digitale, tra cui l’intelligenza artificiale, non produce un effetto sostitutivo sull’intera platea dei lavoratori interessati (fig.1).

Per il Fondo esistono gradi diversi d’impatto secondo le attività lavorative svolte, così li classifica:

  • attività a bassa esposizione (lavori che non si avvalgono di supporto tecnologico);
  • attività ad alta esposizione con bassa complementarità (lavori che rischiano la sostituzione, perché le loro attività possono essere svolte dalle “macchine” senza la necessità di complementarità);
  • attività ad alta esposizione con alta complementarità (che rischiano una sostituzione parziale e presuppongono un cambio professionale per realizzare il lavoro complementare).

Tenuto conto di questi parametri, i fattori che determinano, per lo studio del Fmi, un maggior valore del capitale umano (una minore sostituibilità) sono l’istruzione, l’età (essere giovani, avere una maggiore capacità di apprendimento e predisposizione al cambiamento).

C’è poi la questione di genere: secondo il Fondo, parlando di occupazione femminile nelle economie avanzate, va detto che si valuta un impatto importante, perché di norma le donne sono impiegate nell’area delle professioni altamente esposte, anche se, nello stesso studio, si dice che l’effetto sostitutivo dovrebbe essere mitigato dal fatto che si tratta di attività in buona parte ad alta complementarità, quindi con una possibilità di superare il problema con percorsi di formazione mirata.

Mi permetto di avere qualche dubbio e preoccupazione in più guardando il quadro occupazionale femminile nel nostro Paese (inquadramenti, salario e qualifiche), infatti l’Italia, come vedremo nella fig.2, è inserita tra i Paesi avanzati, ma la nostra conoscenza dell’occupazione femminile rispetto agli altri Paesi avanzati ci fa essere meno ottimisti alle condizioni date.

Partendo dai dati del report, tra il 20% e il 30% dei lavoratori dei Paesi avanzati necessitano di formazione mirata: stiamo parlando in buona parte di lavoratori con formazione scolastica e universitaria elevata, la cui attività presuppone una “collaborazione” con l’intelligenza artificiale.

Certamente nei prossimi anni, per rispondere alle esigenze produttive delle imprese e per rendere più stabile l’occupazione, saranno dirimenti il numero di laureati in materie STEM e la formazione tecnico professionale, ma anche studi umanistici (filosofia, psicologia, sociologia) funzionali per rispondere efficientemente all’orizzontalità del cambiamento gestionale dei processi produttivi.

Poi, secondo lo studio esiste un’area di lavoratori (30/40%) con più bassa scolarizzazione e formazione, che svolge attività ripetitiva di complessità bassa o media più esposti a rischi occupazionali, perché quelle attività saranno in buona parte sostituite dall’intelligenza artificiale.

Problematica che già oggi, come sindacato, stiamo affrontando, perché il processo sostitutivo, come abbiamo già in parte detto, non inizia con l’intelligenza artificiale, ma è già in corso da qualche anno in relazione alla digitalizzazione e a strumenti di lavoro che efficientano le produzioni.

Nei settori più ricchi e con maggiore dialogo tra le parti sociali, ci sono esperienze che hanno determinato il contenimento degli effetti più pesanti, con un accompagnamento alla pensione e un reinserimento in altre attività, mentre nei settori a minore valore aggiunto e con difficili relazioni sindacali si sono persi interi perimetri occupazionali. È nota la crisi nei servizi nel terziario, ma forzando un po' il concetto, anche il mancato turnover nella pubblica amministrazione e nella sanità sono fenomeni contigui.

Possiamo anche dire che la robotizzazione (anche quando supportata da intelligenza artificiale) non sta generando una così netta riduzione di occupazione, proprio perché il “lavoro manuale” non è interamente sostituibile e, anche quando supportato da intelligenza artificiale, necessita di collaborazione e controllo umano; quindi, siamo di fronte a una trasformazione delle professioni e all’esigenza di processi di formazione continua.

In questo ambito siamo ancora nella fase in cui buone relazioni sindacali e processi di formazione professionale stanno presupponendo nuovi modelli produttivi. Importanti i primi accordi sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario come in Lamborghini e Luxottica. Potremmo dire il naturale percorso in ogni fase di trasformazione che implica un incremento di produttività e la creazione di plusvalore.

Questa trasformazione ci presenta un altro fenomeno inquietante, in fondo alla catena del valore, il lavoro ripetitivo e a bassa qualificazione di supporto all’intelligenza artificiale per il caricamento di dati, donne e uomini sparsi in tutto il mondo che da remoto istruiscono l’intelligenza artificiale con milioni di dati a bassissimo costo, tema ben diverso dal lavoro collaborativo ad alta qualificazione.

Arriviamo infine al lavoro autonomo e alle alte professionalità, ritenuti da sempre depositari di conoscenze elevate e capaci di gestire processi complessi: il report proprio su questo dato esprime il maggiore stupore, infatti, mentre in passato le rivoluzioni produttive non avevano mai toccato queste figure, oggi molti di loro sono a rischio. Possiamo dire che l’impatto di riduzione non avverrà sulle professioni, ma su fasi di attività con ripercussione ovviamente sui numeri complessivi e sui processi di formazione: indispensabile per la complementarità l’uso dell’intelligenza artificiale per i processi più complessi.

Invece i quadri aziendali si vedono, sempre più, sottratti dall’intelligenza artificiale processi organizzativi e di gestione, con due opzioni davanti: un’alta specializzazione tecnico/professionale o una capacità di gestione delle persone nei nuovi complessi processi non più meramente verticali, con una capacità di gestire clienti e commesse oltre il proprio luogo di lavoro.

Fino ad arrivare a chi per mestiere idea o presta la propria opera: artisti, sceneggiatori, attori, giornalisti, sempre più compressi nelle dinamiche generative dell’intelligenza artificiale.

Il report poi distingue una fascia di professionisti maggiormente protetti, i magistrati ad esempio, per la delicata funzione che svolgono: difficilmente le nostre società accetteranno (per fortuna) di essere giudicate da un’intelligenza artificiale.

Tenuto conto dell’insieme dei dati dello studio, credo questo debba essere da stimolo alle istituzioni e alle forze politiche per avviare un confronto con le parti sociali, col contributo di enti di ricerca e università, per definire una vera programmazione sia sulle questioni professionali (analisi delle necessità, formazione, sostegno pubblico all’occupazione) sia sulle politiche industriali.

Anche gli Stati Uniti, negli ultimi 8-10 anni, hanno investito risorse pubbliche per indirizzare le politiche industriali e lo hanno fatto con partecipazioni dirette nei settori strategici. Non dirò nulla sulla Cina perché è evidente quale grande spinta lo Stato stia imprimendo alla transizione, l’Italia invece sembra essere rimasta la sola con politiche ultraliberiste, con distribuzione di risorse pubbliche alle imprese, senza chiedere neanche responsabilità sociale o investimenti in perimetri strategici.

Fino ad arrivare, è cronaca di questi giorni, alla svendita degli ultimi asset pubblici o alla rinuncia a qualsiasi indirizzo pubblico sui settori strategici: Ita, Tim, Rai Way, Poste, Fs, Eni. L’esperienza degli ultimi 25 anni ci dovrebbe dire che le privatizzazioni per fare cassa sono una svendita del patrimonio pubblico che impediscono di indirizzare lo sviluppo del Paese e sostenere la giusta trasformazione occupazionale.

Si può anche affermare che nei fatti, al di là delle dichiarazioni di principio, l’intera Unione Europea pensa ancora che il “mercato” si autoregoli, sottovalutando quanto la concentrazione capitalistica (le grandi multinazionali del digitale) e le superpotenze abbiano cambiato il quadro di riferimento e gli equilibri economici globali.

Non è semplice per nessuno, neanche per noi, immaginare un confronto in cui alcuni settori avranno impatti occupazionali pesanti, ma senza una discussione seria che porti ad una analisi d’insieme e ad una programmazione, il rischio è quello di dover gestire, nei prossimi anni, solo crisi. Di non avere la capacità di sostenere lo sviluppo di ambiti produttivi che genereranno nuova occupazione.

Il rapporto del Fondo evidenzia il rischio che aumentino le diseguaglianze, con percorsi professionali diversi per chi ha accesso all’intelligenza artificiale e chi non lo ha, con un effetto anche sui salari e in generale sulla qualità occupazionale. In aggiunta direi che questa differenziazione non è solo legata all’impresa (diverse dinamiche professionali nello stesso luogo di lavoro), ma anche all’intero mercato del lavoro, con una differenziazione determinata da chi farà le scelte giuste di politica industriale e chi potrà decidere la localizzazione di nuovi insediamenti e distretti produttivi e realizzerà gli investimenti in nuove tecnologie.

Per noi sembra quasi inutile ripeterlo visti i termini di confronto con l’attuale governo sul fisco, ma lo stesso Fmi dice che la leva fiscale e quella della spesa sociale saranno determinanti per riequilibrare le diseguaglianze generate da coloro che avranno benefici dall’intelligenza artificiale e coloro che ne subiranno l’utilizzo.

In sintesi, la redistribuzione del plusvalore (la ricchezza) generato dall’intelligenza artificiale dovrebbe, anche per il Fondo monetario internazionale, trovare forme di redistribuzione salariale e fiscale per evitare un aumento delle diseguaglianze, già nel nostro Paese enormi.

Per evitare che il bilancio occupazionale sia negativo è indispensabile avviare un confronto sull’occupazione e le professioni che cambiano, nel Paese, in Europa e nei luoghi di lavoro. Da ora non potrà non esserci uno sforzo straordinario nelle rinnovazioni contrattuali, perché solo da un confronto sui settori si può indirizzare un processo di transizione occupazionale, l’identificazione e definizione delle nuove professioni, la formazione continua, la riduzione d’orario di lavoro a parità di salario.

Letto con attenzione il rapporto del Fondo monetario internazionale, sarà proprio l’Europa ad avere l’effetto occupazionale più pesante, perché carente nello sviluppo di tecnologie e povera di materie prime. Il quadro, a pochi mesi dal voto per il Parlamento europeo, è aggravato dai conflitti in corso, dall’assenza di politiche industriali e fiscali comunitarie, con rischio alle porte di subire le scelte economiche e d’ investimento delle grandi multinazionali Usa e la concorrenza dei Paesi Brics.

Alessio De Luca, Ufficio Progetto Lavoro 4.0