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Anni di violenze, abusi e minacce quotidiane. Il posto di lavoro che si trasforma in un lager. Il terrore di raccontare quello che stai vivendo e di non essere creduta. O peggio, d'essere licenziata. Giulia (nome di fantasia) ha vissuto un incubo, anni che segneranno il resto della sua vita. Ora, fortunatamente, è uscita da questo inferno, e giorno dopo giorno sta riprendendo in mano la sua esistenza. Mentre il suo ex datore deve affrontare un processo: l'uomo è stato rinviato a giudizio per maltrattamenti sul luogo di lavoro.
Se questa storia ha un lieto fine, è grazie al coraggio di Giulia e all'impegno della Cgil. La donna lavorava da dieci anni in un'azienda di confezioni, in provincia di Firenze. Ma da troppo tempo era vittima di una serie infinita di umiliazioni e maltrattamenti: “Per almeno cinque anni. Giulia ha dovuto affrontare violenze e prevaricazioni a sfondo sessuale”, spiega Alessandro Picchioni della Filctem Cgil provinciale. “Il padrone dell'azienda ha iniziato con minacce verbali, progressivamente sempre più dure. Dalle parole, l'uomo è passato in breve tempo alle tastate, alle umiliazioni fisiche”.
Una spirale di soprusi senza fine, dove quasi ogni tipo di vessazione era ammessa. E il resto delle impiegate e degli impiegati che, per paura di ripercussioni, tacevano. Quando la situazione è diventata insostenibile, Giulia ha cercato di reagire e difendersi. Una mattina, davanti ad alcune colleghe e colleghi, ha spiegato al suo capo che non avrebbe più tollerato altri abusi. Ha provato a far capire che quell'atteggiamento era inaccettabile. Ma di certo, come risposta, non si aspettava di essere trascinata in magazzino e di ritrovarsi una mano sul collo.
Quando la donna si è rivolta alla Cgil, il sindacato e l'avvocata Marina Capponi hanno ascoltato la sua storia e provato ad analizzare insieme quanto accadeva ogni giorno. Perché questo tormento doveva finire. “Dopo l'episodio del magazzino – riprende il segretario – Giulia mi ha contattato tramite amici in comune. Ci siamo incontrati e mi ha raccontato tutta la vicenda. Era psicologicamente devastata. Abbiamo ascoltato quanto aveva dovuto subire e ci siamo resi conto che c'era solo una cosa da fare: Giulia doveva denunciare il suo datore di lavoro”.
Picchioni, lo Sportello Donna della Cgil e l'avvocata Amelia Vetrone si rendono conto che la prima cosa da curare è il lato umano. Il sindacato ha dovuto proteggere Giulia sotto tutti i punti vista, anche dalle bugie che le erano state raccontate. “Le abbiamo consigliato di rivolgersi agli psicologi del lavoro”, continua Picchioni: “I medici hanno riscontrato una forma di depressione correlata alla condizione che stava vivendo. Il datore di lavoro le aveva detto di sentirsi intoccabile perché lui offriva al sindacato cinquemila euro l'anno di pubblicità. «Tanto io li pago, cosa possono farmi?», diceva. Tutto falso. Noi non prendiamo soldi e Giulia si è convinta che la strada giusta era quella”.
Una volta compresa la gravità degli eventi, Picchioni ha organizzato un'assemblea aziendale per capire cosa avevano visto e sentito le colleghe e i colleghi della vittima. “Solo due lavoratori si sono presentati – conclude il dirigente della Filctem Cgil di Firenze – ma almeno hanno testimoniato durante il processo. C'è stata davvero poca solidarietà e in parte è comprensibile. Gli altri erano tutti annichiliti, terrorizzati”.
Il verdetto del tribunale, per i maltrattamenti subiti sul luogo di lavoro, dovrebbe arrivare il 21 giugno. Perché se Giulia ha cambiato azienda, ha dovuto affrontare la depressione e ha vissuto anni di terrore, minacce e violenza, un responsabile c'è. E questa persona dovrà rispondere delle conseguenze delle sue azioni.