La firma il 20 giugno scorso dell’ipotesi di rinnovo del ccnl Legno arredo rappresenta una grande vittoria politica e sindacale, per come è maturata e per i risultati raggiunti, in un contesto particolare come quello attuale (alta inflazione, forte cambio nei processi tecnologici e organizzativi). Oltre che per l’importanza di un settore che vale circa 60 miliardi di euro l’anno, rappresenta una delle quattro “A” del made in Italy e occupa oltre 200 mila addetti.

Ovviamente ogni rinnovo contrattuale ha una storia a sé, specificità aziendali e di ciclo produttivo, condizioni di contesto e di mercato. Molto contano cioè gli andamenti del settore, la dimensione media d’impresa, la storia e qualità delle relazioni industriali e da ultimo, ma non per importanza, i classici rapporti di forza.

E proprio sulla coincidenza di questi elementi (alti profitti delle imprese, relazioni industriali consolidate, forte componente dell’export, ottimi rapporti di forza, salda unità dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali) si è giocato questo rinnovo, con alcune premesse però necessarie per capire il contesto della vertenza, da dove venivamo, e anche perché le aziende del settore possono, alla fine, sostenere oneri così impegnativi.

Prima premessa: il modello salariale di questo rinnovo in realtà è quello che avevamo introdotto sin dal 2016 (tre rinnovi contrattuali fa). All’epoca come Fillea Cgil, in un forte rapporto unitario, ci battemmo per introdurre nel ccnl la cosiddetta “doppia pista”, ovvero aumenti sui minimi salariali in cifra “politica” al fine di redistribuire la produttività di sistema e favorire i consumi interni, più aumenti (sempre sui minimi) legati all’inflazione reale (cioè usando o l’indice Foi o l’Ipca generale, cioè comprensivo degli aumenti dei beni energetici importati e – come base di calcolo – paga base, contingenza, Edr e tre scatti di anzianità, ovverosia il cosiddetto “valore punto”).

Questo ultimo aspetto era importante, anche perché abbiamo sempre avuto dubbi, anche per esperienze passate, nell’accettare un indicatore “rigido” per la contrattazione nazionale, che rischia sempre di limitare le capacità “adattative e flessibili” che ogni ccnl deve poter mantenere. Per di più, poi, se l’indicatore strutturalmente non recupera mai pienamente l’inflazione (i lavoratori non pagano le bollette elettriche o il riscaldamento?).

Del resto convintamente non condividemmo, come Cgil, l’accordo interconfederale del 2009 sottoscritto da Cisl, Uil e Confindustria, proprio per questa rigidità. E sempre per questo motivo nell’accordo interconfederale del 2018 (quello del Tem e Tec, per capirci) sottoscrivemmo invece la possibilità – “secondo le regole condivise, per norma o prassi nei singoli ccnl” e “in ragione di processi di trasformazione o d’innovazione organizzativa” – di poter riconoscere aumenti oltre il mero uso ragionieristico dell’Ipca depurato.

Su questo i lavoratori della chimica sono stati dei precursori lungimiranti e va dato loro atto (addirittura con meccanismi ex ante). Su quella scia di fatto si sono inseriti i ccnl del Legno arredo e lo stesso ultimo ccnl dei metalmeccanici, innovando sulle professionalità e introducendo meccanismi anch’essi di verifica inflattiva ex post (non a caso, ora, con l’alta inflazione, con diversi mal di pancia delle imprese di Federmeccanica).

Seconda premessa: ottenuto nel rinnovo del 2016 questo meccanismo salariale - con un aumento sui minimi per redistribuzione di produttività e ogni anno, a gennaio, aumenti automatici calcolati sull’inflazione piena e reale dell’anno precedente - nel 2020 confermammo il meccanismo, consolidando per “norma e prassi” un modello, come da lettera h del “Patto della fabbrica”.

Per questo, quando siamo andati al rinnovo quest’anno eravamo forti di un’acquisizione ormai consolidata e questo ha reso più coerente la nostra azione di mobilitazione e la richiesta di un impegno (quando si sciopera sono i lavoratori che, per fermare la produzione, rinunciano al salario) alle lavoratrici e ai lavoratori del settore.

Infatti, al di là di tutto, a favorire un miglioramento evidente dei rapporti di forza ha pesato il profondo senso d’ingiustizia percepito da operai, impiegati, tecnici, designer, quadri, rispetto alla scelta fatta inizialmente da Federlegno di non riconoscere più, per il triennio 2023-2025, il modello in vigore dal 2016, “mangiandosi di fatto” l’inflazione del 2022. Del tipo: “Ma come, quando l’inflazione era bassa, cara impresa, andava bene che ci prendevamo 40-50 euro di aumento, ora che l’inflazione è alta non va più bene? E no!”.

A questo clima nelle fabbriche e negli uffici si sono aggiunti poi i risultati economici di un settore che, dopo la pandemia, ha visto registrare, nel 2021 e nel 2022, profitti e una crescita di fatturati senza precedenti. Sia verso l’estero (in particolare arredo e mobile, conquistando ulteriori fette di mercato in Cina, negli Stati Uniti, nei paesi arabi) sia nel mercato interno (anche a seguito della ripresa delle costruzioni), con previsioni buone anche per il 2023. E ovviamente i primi ad accorgersene sono state le lavoratrici e i lavoratori, con un aumento dell’orario di fatto e dell’uso degli impianti significativo.

Quando Federlegno ha rotto il tavolo del rinnovo, a febbraio, forse impreparata a un indicatore Ipca che registrava un +8,7%, la mobilitazione è stata quindi una naturale reazione, vasta e partecipata. Per mesi le lavoratrici e i lavoratori hanno sostenuto il blocco delle flessibilità e degli straordinari (e chiunque frequenta una fabbrica sa, quando i salari sono bassi, come anche gli straordinari, purtroppo, fanno gola) con una forza e un’unità che non vedevamo da tempo tra delegati e federazioni sindacali sul territorio. E poi, durante le giornate del Salone del Mobile, il grande sciopero del 21 aprile: fabbriche e uffici vuoti, piazze e manifestazioni piene.

La vertenza, a quel punto, ha conosciuto un punto di svolta: matura in Federlegno (il tavolo riprende i primi di giugno) una consapevolezza che, partita inizialmente solo da una serie d’imprese, diviene poi patrimonio di tutta l’associazione di Confindustria. È in quel momento che si decide come sindacato di proporre “una soluzione alla tedesca”: vista l’alta inflazione, tutti i costi contrattuali devono andare sul salario dei lavoratori, evitando anche una discussione sulla parte normativa che avrebbe ulteriormente complicato la dinamica dentro la delegazione datoriale (un conto sono le medie, un conto le grandi aziende, un conto chi lavora per mobili e arredo, un conto chi lavora per il legno per l’edilizia e così via).

Per le delegate e i delegati della Fillea Cgil, per la delegazione trattante (a cui va un plauso di tutta la segreteria nazionale) è stata quindi una scelta ragionata: le richieste normative sulla riduzione dell’orario (da agganciare eventualmente anche alla formazione) e sugli appalti sarebbero rimaste in campo per divenire il cuore delle linee guida per la prossima contrattazione di secondo livello, ma in quel momento dovevamo provare a stringere per difendere quella doppia pista che ci avrebbe fatto andare (nel nostro caso, ci avrebbe fatto confermare un modello) “oltre l’Ipca depurato”.

Come ci eravamo ripromessi di fare, del resto, votando il documento congressuale della Cgil “Il lavoro crea il futuro”.  Le discussioni congressuali, le cinque azioni proposte, la centralità della questione salariale a fronte di un’alta inflazione che sta impoverendo i lavoratori, come priorità, l’avevamo metabolizzate in decine e decine di assemblee congressuali con le iscritte e gli iscritti.

E allora ecco rivendicare un aumento per il 2023 pari all’8,7% (l’inflazione reale del 2022; 168 euro al 5° livello, parametro 140), una cifra politica per redistribuire la produttività, e le verifiche a gennaio 2024 e gennaio 2025 per aumenti da calcolare sull’Ipca generale, come da modello vigente.

Alla fine l’abbiamo spuntata e dobbiamo dare atto a Federlegno che ha accettato la sfida, con coraggio e lungimiranza. Riconoscendo sin da subito (luglio 2023) un aumento sui minimi di 143 euro al 5° livello e una somma “una tantum” di 300 euro (cioè 25 euro per 12). Quindi a gennaio 2024 ulteriori aumenti sui minimi, calcolati usando l’Ipca generale, per recuperare l’inflazione del 2023; a marzo 2024 un’ulteriore “una tantum” di altri 300 euro; infine, a gennaio 2025, ulteriori aumenti sui minimi calcolati sempre usando l’Ipca non depurato, per l’inflazione del 2024.  

Manteniamo quindi la “nostra scala mobile”, come l’ha chiamata Valentina Conte su Repubblica del 22 giugno scorso, cui si aggiungono ulteriori 300 euro (la seconda una tantum) proprio in virtù di una produttività di settore importante. Ma soprattutto abbiamo dimostrato come parti sociali - imprese e sindacati - che occorre investire sempre sul lavoro e sulle professionalità che fanno grande il nostro manifatturiero, anche e soprattutto nei momenti difficili. E a fronte di grandi trasformazioni tecnologiche, di processo e prodotto (dalla sostenibilità al digitale), servono più coesione sociale, più partecipazione, più lavoro di squadra in ogni fabbrica e in ogni ufficio.

Nei prossimi giorni i lavoratori e le lavoratrici voteranno l’ipotesi: noi dobbiamo essere bravi in quelle assemblee però anche ad aumentare, risultati alla mano, consenso, iscritti e rappresentanza, perché “il sindacato serve, le relazioni industriali sono fondamentali, il ccnl è ancora il principale strumento regolatore di diritti e doveri”.

Forti di un percorso iniziato con l’Assemblea nazionale dei quadri e delegati a Milano il 17 ottobre 2022, passato per mesi di blocco degli straordinari e per un grande sciopero, e terminato con una vittoria di tutti, della responsabilità e delle buone relazioni industriali, che speriamo sia utile anche alle lavoratrici e ai lavoratori di altri settori, impegnati nel rinnovo dei loro contratti nazionali.

Alessandro Genovesi è segretario generale Fillea Cgil