“Dal dopoguerra a oggi, il settore aereo civile non aveva mai conosciuto una crisi così profonda”. Sono parole amare, piene di preoccupazione, quelle del coordinatore nazionale della Fiom Cgil Claudio Gonzato. Una crisi che lascerà il segno nel modello di mobilità del trasporto aereo, con un forte impatto sulle produzioni. “Tutti gli analisti internazionali, infatti, prevedono che si possa ritornare ai volumi pre-Covid non prima del 2025”, spiega l’esponente sindacale, con delega ad aerospazio e sistemi d’arma: “Per l’industria italiana, in particolare, la crisi sta impattando profondamente sulle maggiori aziende, con il pesante coinvolgimento della filiera dell’indotto”. 

Facciamo un salto indietro. Com’era il settore prima della pandemia?
In Italia, ma in generale nel mondo, il settore è uno dei più rilevanti a livello industriale, per numero di occupati e redditività economica. Non ha risentito di crisi significative, nemmeno durante quella finanziaria del 2008 o quella legata agli attentati dell’11 settembre. L’aerospazio, inoltre, non ha visto ancora i Paesi emergenti a livello mondiale sottrarre fette di mercato significative ai produttori storici, rimanendo circoscritto pertanto a pochi Paesi. In Italia rappresenta, con le principali aziende che lavorano per i grandi player mondiali e le centinaia di piccole e medie aziende dell'indotto, il primo per numero di addetti e fatturato all’interno delle imprese associate a Federmeccanica.

Cosa è successo con il diffondersi del virus?
A differenza del settore militare, che attraverso i finanziamenti dei vari Stati ha mantenuto, e in qualche caso anche incrementato, i volumi produttivi, la prima fase pandemica ha inciso profondamente sul settore civile. In epoca pre-Covid il comparto aveva volumi produttivi e ordini che traghettavano tra i 10 e i 15 anni: la pandemia ha rallentato, posticipato, se non addirittura cancellato questi ordini. Ci troviamo di fronte, dunque, alla prima vera crisi strutturale dal dopoguerra a oggi.

Come hanno reagito le aziende?
La prima fase è stata di attesa, ma ben presto si è compreso che la crisi aveva, appunto, carattere strutturale. Ora le principali imprese del settore, dall’assemblaggio alla produzione dei motori dei velivoli, stanno valutando razionalizzazioni che, in buona sostanza, comportano una riduzione dell’occupazione che si attesta tra il 25 e il 35 per cento.

Per fortuna è tuttora in vigore il blocco dei licenziamenti…
La riduzione delle attività, e di conseguenza dell’occupazione, non ha ancora assunto un aspetto drammatico proprio in virtù sia del blocco sia del finanziamento della cassa Covid. È del tutto evidente, però, che nel momento in cui verranno meno queste condizioni, le aziende unilateralmente decideranno i tagli produttivi e occupazionali rispetto ai volumi richiesti dal mercato. La crisi, come sempre, la pagheranno le lavoratrici e i lavoratori di questo Paese.

A questa crisi, allora, come bisognerebbe reagire?
Attualmente non è possibile sapere quali saranno i volumi produttivi del settore civile a fine pandemia, è dunque necessario che il nostro Paese definisca gli investimenti necessari su materiali, programmi e progetti per il futuro. L’obiettivo è evitare che la nostra industria venga ridotta esclusivamente a contoterzista. Già prima della pandemia, infatti, le aziende italiane lavoravano principalmente come contoterziste per i due grandi player mondiali, Airbus e Boeing, con volumi che però consentivano la sostenibilità industriale e occupazionale.

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Ma noi già sappiamo che ci sarà una riduzione dei volumi produttivi a livello mondiale…
Lo sappiamo, infatti. E questo comporterà, ovviamente, un significativo ridimensionamento dei volumi produttivi in Italia, con un impatto esponenziale nell’indotto. Impatto che – è bene rimarcarlo – graverà soprattutto sul Mezzogiorno, in quanto gli stabilimenti del settore civile sono soprattutto presenti in questa parte del Paese.

Governo e istituzioni come stanno affrontando la situazione?
A ormai un anno dall’inizio della pandemia, la crisi del settore aerospazio appare del tutto trascurata. Abbiamo richiesto più volte un tavolo di confronto al ministero dello Sviluppo economico, ma nessuno ci ha mai risposto. L’attuale definizione delle quantità economiche previste nel Recovery fund è l’ultima possibilità per riprogettare la mobilità nel suo complesso e, contestualmente, ripensare e riorganizzare la produzione dell’attività del settore. Governo, sindacati e imprese dovrebbero decidere assieme quali programmi, investimenti e progetti, finanziati sia dal pubblico sia dal privato, sono necessari per garantire la ripartenza del settore a fine pandemia. Mi auguro questo possa accadere al più presto.