Il 2 settembre 1943, poche ore prima della firma dell’armistizio con gli alleati anglo-americani, Bruno Buozzi firma con gli industriali un importante accordo interconfederale per il ripristino delle Commissioni interne. L’accordo reintroduce nel campo delle relazioni industriali l’organo di rappresentanza unitaria di tutti i lavoratori, impiegati e operai nelle aziende con almeno 20 dipendenti, attribuendogli anche poteri di contrattazione collettiva a livello aziendale. Il termine Commissione interna si trova per la prima volta usato all’interno dell’accordo Itala-Fiom, firmato a Torino nel 1906. Appena due anni dopo, nel marzo 1908, la Lega Industriale dirama - si legge su l’Avanti! - un gruppo di “suggerimenti” alle direzioni delle industrie da utilizzare come base per un’azione comune verso gli operai organizzati. Il primo dei “suggerimenti” riguarda, appunto, “l’abolizione delle Commissioni interne”. Quattro anni dopo, nel 1912, le Commissioni interne vengono effettivamente abolite per legge. Ma risorgono nel 1913.

La fine della guerra del 1914-18 trova il movimento delle Commissioni interne notevolmente esteso e proteso verso un allargamento dei suoi compiti e delle sue funzioni sul terreno economico. Scrive Antonio Gramsci su L’Ordine Nuovo l’anno successivo alla sconfitta degli imperi centrali: “L’esistenza di una rappresentanza operaia all’interno delle officine dà ai lavoratori la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia”. Le Commissioni interne, scrive ancora Gramsci il 21 giugno 1919, “sono organi di democrazia operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le Commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitrato e di disciplina. Sviluppate ed arricchite, dovranno essere domani gli organi di potere proletario che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di amministrazione”.

L’avvento del fascismo arresta nuovamente lo sviluppo di questi organi di rappresentanza: il 2 ottobre 1925 l’articolo 4 del Patto di Palazzo Vidoni sancisce: “Le Commissioni interne di fabbrica sono abolite e le loro funzioni demandate al sindacato (fascista) locale”. Reistituite con l’accordo Buozzi-Mazzini del 2 settembre 1943, le Commissioni interne ricevono una nuova regolamentazione con l’accordo del 7 agosto 1947 tra la Cgil e Confindustria e con l’accordo interconfederale dell’8 maggio 1953 (l’ultimo accordo interconfederale sulle commissioni interne è del 18 aprile 1966). Alla fine degli anni Sessanta, con lo scoppio dell’autunno caldo, si fa insistente la necessità di avere rappresentanti delle confederazioni eletti direttamente dai lavoratori. La domanda di partecipazione dei lavoratori alle scelte collettive rappresenta una novità alla quale le vecchie strutture sindacali non sono in grado di rispondere. A ricostruire il rapporto tra sindacato e lavoratori è il delegato di linea o di reparto, conquistato con gli accordi del primo semestre del 1969.

Con l’approvazione dei consigli di fabbrica - che nel Congresso del ’70 la Fiom, anticipando la Cgil, riconosce come istanza di base del sindacato - si chiude di fatto l’esperienza delle Commissioni interne ed inizia per i lavoratori e per il sindacato una nuova fase. Raccontava a proposito di una transizione non facile Bruno Trentin: “Ricordo bene una riunione di partito tenutasi a Frattocchie nell’aprile 1970, in buona sostanza per mettere sotto processo la decisione della Fiom di assumere i Consigli come la struttura unitaria di base del sindacato nei luoghi di lavoro, di porre fine, quindi, all’esperienza delle Commissioni interne … L’attacco portato alle decisioni della Fiom fu subito esplicitato con gli interventi di Giorgio Amendola e, successivamente, di Agostino Novella, che aveva da poco lasciato la guida della Cgil … Pietro Ingrao intervenne e si schierò senza riserve a sostegno della scelta fatta dalla Fiom … Luciano Lama, nuovo segretario della Cgil, chiese che fosse lasciato uno spazio di autonomia alla Confederazione, affinché essa potesse prendere sui Consigli una decisione meditata … La conclusione del dibattito fu affidata a un discorso apparentemente salomonico di Enrico Berlinguer”.

“La stessa domanda di massa, espressa dai Consigli di fabbrica di una struttura unitaria nell’azienda che superasse radicalmente la pratica delle organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro - scriveva Bruno in Da sfruttati a produttori - nasce, se si riflette attentamente (...) dalla natura delle rivendicazioni del proletariato industriale degli anni ’60, dai loro contenuti politici e dai nuovi problemi di elaborazione collettiva, di conoscenza non frantumata che essi ponevano all’azione dei lavoratori”. “Per migliorare la vita operaia - affermava Iginio Ariemma - il sindacato doveva contrattare tutti gli aspetti del rapporto di lavoro e la stessa organizzazione produttiva, non soltanto il salario. La libertà nel lavoro è per Trentin la risposta al fordismo e al taylorismo, è l’obiettivo primario. La libertà più che il pane, più che il salario, perché dall’autonomia nel lavoro dipende l’autorealizzazione del lavoratore e del suo progetto oltre che il miglioramento delle sue condizioni di lavoro e di vita. Non si comprendono le piattaforme contrattuali dei metalmeccanici degli anni sessanta e settanta ed in particolare l’impostazione, teorica e pratica, dei delegati e dei consigli di fabbrica se non si parte dalla volontà di estendere le possibilità della libertà nel lavoro”. La libertà viene prima, come si fa a non essere d’accordo con Bruno Trentin?