La scena è ormai abituale: file di correntisti disperati davanti agli sportelli della loro banca, dopo l'avvenuto crac finanziario. In questo caso, quello della BpB (la Popolare di Bari), l'istituto di credito più importante del Mezzogiorno, con sessant'anni di attività alle spalle, finito in liquidazione il 13 dicembre scorso con 1,6 miliardi di passivi. Una vicenda costellata di errori, conti truccati, favoritismi, sprechi, malagestione, da parte della proprietà, costituita dalla famiglia Jacobini.

"Da sempre, una conduzione d'impronta familistica senza controllo – afferma Gaetano Errico, segretario Fisac Cgil Bari e coordinatore sindacale della BpB –, dove chi comanda fa 'il bello e il cattivo tempo' e vige il principio una testa un voto, mentre la massa di azionisti conta ben poco. Per questo, alla prossima assemblea di fine giugno, saremo favorevoli alla trasformazione della banca in spa, per dare continuità e opportunità di rilancio alla banca e dunque la speranza ai soci di ripresa di valore del loro investimento".

I prodromi della crisi hanno radici lontane. Dapprima, con l'aumento di capitale effettuato nel 2014 (da 400 milioni a oltre un miliardo), la BpB - intenzionata a espandersi - raddoppia i soci azionisti (da 35.000 agli attuali 70.000) e incorpora Tercas (l'ex Cassa di risparmio di Teramo), anche grazie all'aiuto del sistema bancario di circa 500 milioni. Acquisizione che si rivela un boomerang e si trasforma in un buco nero.    

"Nel 2017 ci rendiamo conto della criticità della situazione – ricorda Errico –, allorquando i vertici della banca ci chiedono di far ricorso a contratti di solidarietà onde evitare licenziamenti per almeno 500 dipendenti. D'accordo con i sindacati di comparto Fabi e Unisin, diciamo sì alla solidarietà per un numero di giornate pro-capite da 12 a 33, pagate al 60%, a seconda della retribuzione di ciascun addetto. Per tutto il 2018, assistiamo a una riduzione dei costi, anche attraverso il taglio degli stipendi dei dirigenti, al blocco degli straordinari e ad altri strumenti di riduzione del costo del personale. Ma da un'analisi attenta dei bilanci, vengono fuori nuovi passivi per parecchi milioni, come crediti inesigibili, grossi affidamenti andati a male. Insomma, un disastro!".

La banca è in pieno dissesto finanziario e necessita di nuove iniezioni di capitali, che però non sono reperibili sul mercato. A questo punto, torna Vincenzo De Bustis, già dirigente di Banca121 prima, del Monte dei Paschi di Siena poi, passato quindi in Deutsche Bank Italia, per assumere di seguito la direzione generale della BpB fino al 2015, successivamente richiamato nel 2018 per cercare di 'salvare il salvabile'.

"Il nuovo amministratore delegato prova a rimetterci le mani – sostiene Errico –, progettando di portare capitali freschi in istituto attraverso investimenti con soggetti istituzionali. Linea che toglie potere e va in rotta di collisione con la famiglia Jacobini, che punta ad aumenti di capitale da effettuare con il coinvolgimento dei risparmiatori. De Bustis presenta un piano industriale, che però non ci viene ufficialmente mai proposto, a testimonianza delle diatribe interne fra proprietari e dirigente. Nel frattempo, la situazione si deteriora sempre di più; vengono fuori nuovi crediti problematici, che devono essere ripianati. Occorre accantonare delle somme, secondo un meccanismo autoregolatore: quanto più rischioso è il credito, tanto più bisogna avere una riserva di fondi, e questo toglie liquidità alla banca".                  

Cosa di cui si rendono subito conto i due commissari straordinari a metà dicembre scorso, quando assumono le redini del comando, dopo una prima verifica dei conti: per rimettere in piedi l'istituto pugliese sarà necessaria una ripatrimonializzazione da 1,6 miliardi per ripianare le perdite: per una parte, 430 milioni, attraverso l'Mcc (il Mediocredito centrale), per il resto, sarà compito del Fitd - il fondo interbancario per la tutela dei depositi che interviene per sostenere le banche in difficoltà -, farsene carico. A giudizio del sindacato, un'operazione inevitabile, perché in ogni caso il costo del salvataggio sarà inferiore a quello che l'intero sistema creditizio nazionale dovrebbe sostenere se affondasse la BpB, che conta oltre quattro miliardi di depositi.

"Quando fallisce un istituto di credito, si tira dietro tutto un tessuto economico, una comunità, soprattutto se è una grossa banca, con ramificazioni in tredici regioni del Paese, come in questo caso – conclude Errico –. Il governo è già intervenuto per decreto, destinando 300 milioni per tenere in vita la BpB, la cui salvezza dipenderà da tre elementi imprescindibili e propedeutici fra loro: ricapitalizzazione, trasformazione in spa e piano industriale. Su quest'ultimo punto la trattativa si presenta durissima e spietata: nel primo incontro avuto a livello aziendale il 30 aprile, ci sono stati prospettati 900 esuberi, pari a quasi un terzo dell'organico di 2.672 unità, accompagnati dalla chiusura di 94 filiali (anche qui, equivalenti a oltre il 30% dei quasi 300 sportelli sparsi sul territorio). Un taglio oltretutto mal distribuito: sei sedi su sette in Calabria e tutte le succursali presenti nelle regioni del Nord". Il negoziato proseguirà ora su base nazionale fra Abi (l'associazione datoriale di settore), sindacati di categoria e commissari.