Moriva 32 anni fa - il 24 febbraio 1990 - Sandro Pertini, antifascista, partigiano eletto all’Assemblea costituente, senatore nella Prima legislatura e deputato in quelle successive sempre confermato dal 1953 al 1976. Presidente della Camera dei deputati per due legislature successive, è il settimo presidente della Repubblica italiana, eletto due mesi dopo la morte di Aldo Moro al sedicesimo scrutinio con 832 voti su 995. “Bisogna assicurare il lavoro ad ogni cittadino - diceva nel suo discorso di insediamento - La disoccupazione è un male tremendo che porta alla disperazione”.

“Questo - aggiungeva - chi vi parla, può dirlo per personale esperienza acquisita quando in esilio ha dovuto fare l’operaio per vivere onestamente. La disoccupazione giovanile deve soprattutto preoccuparci, se non vogliamo che migliaia di giovani, privi di lavoro, diventino degli emarginati nella società, vadano alla deriva, e disperati, si facciano strumenti dei violenti o diventino succubi di corruttori senza scrupoli. Bisogna risolvere il problema della casa, perché ogni famiglia possa avere una dimora dignitosa, dove poter trovare un sereno riposo dopo una giornata di duro lavoro. Deve essere tutelata la salute di ogni cittadino, come prescrive la Costituzione. Anche la scuola conosce una crisi che deve essere superata. L’istruzione deve essere davvero universale, accessibile a tutti, ai ricchi di intelligenza e di volontà di studiare, ma poveri di mezzi. L'Italia ha bisogno di avanzare in tutti i campi del sapere, per reggere il confronto con le esigenze della nuova civiltà che si profila. Gli articoli della Carta costituzionale che si riferiscono all’insegnamento e alla promozione della cultura, della ricerca scientifica e tecnica, non possono essere disattesi”.

“Noi abbiamo sempre considerato - affermava - la libertà un bene prezioso, inalienabile. Tutta la nostra giovinezza abbiamo gettato nella lotta, senza badare a rinunce per riconquistare la libertà perduta. Ma se a me, socialista da sempre, offrissero la più radicale delle riforme sociali a prezzo della libertà, io la rifiuterei, perché la libertà non può mai essere barattata. Tuttavia essa diviene una fragile conquista e sarà pienamente goduta solo da una minoranza, se non riceverà il suo contenuto naturale che è la giustizia sociale. Ripeto quello che ho già detto in altre sedi: libertà e giustizia sociale costituiscono un binomio inscindibile, l’un termine presuppone l’altro: non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà, come non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale”.

Il neo eletto Presidente concludeva il suo discorso d’insediamento con il proposito di cessare di essere uomo di partito per diventare “il presidente della Repubblica di tutti gli italiani, fratello a tutti nell’amore di patria e nell’aspirazione costante alla libertà e alla giustizia”. Sarà davvero il presidente di tutti. Il presidente con la pipa che per primo esce dal protocollo giocando a scopone con Zoff contro il duo Causio - Bearzot, sull’aereo presidenziale di ritorno dal Mondiale vinto in Spagna nel 1982 che lo ha visto esultare in tribuna.

Il presidente del terremoto dell’Irpinia, della tragedia di Vermicino e della strage di Bologna, l’amico che in silenzio saluta la bara di Enrico Berlinguer che lo fa trasportare sull’aereo presidenziale dichiarando: “Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”. Il Presidente più amato della storia della nostra Repubblica.

Un uomo profondamente onesto, dal sorriso dolce e il carattere impetuoso. “Tutti gli uomini di carattere hanno un cattivo carattere”, si schermiva. E in effetti chi lo ha conosciuto lo descrive come un uomo testardo, senza peli sulla lingua, franco al limite della ruvidezza. “Oh, quante persone ho investito con le mie ire improvvise - confessava a Oriana Fallaci nel 1973 - i miei atteggiamenti rigidi, le mie interruzioni!”. Ma era proprio questa spontaneità che piaceva tanto alla gente. Una spontaneità pulita, una onestà genuina.

L’onestà intellettuale di un uomo che si rifiuta di stringere la mano al questore di Milano Marcello Guida non solo per il suo passato di funzionario fascista e direttore del confino di Ventotene, ma anche il fatto che sul questore gravasse l’ombra della morte di Pinelli. Un uomo che nel 1933, da prigioniero, rimprovera la mamma per aver presentato per lui una domanda di grazia.

“Rispetto agli altri presidenti ebbe una marcia in più - ha scritto Filippo Ceccarelli -Un Super-io al tempo stesso poetico e robotico, comunque di intensa spontaneità e altrettanto impatto mediatico che anticipò, insediandola come avamposto al massimo grado delle istituzioni, la lunga stagione della politica-spettacolo”. Un uomo nato nell’Ottocento e vissuto nel secolo scorso, ma ancora oggi tanto attuale, tanto amato, da essere - suo malgrado - una star dei social (chissà poi se gli sarebbero piaciuti!).

Uno dei pochi protagonisti della prima Repubblica che i giovani di oggi riconoscono. Quei giovani ai quali il presidente era tanto legato, ai quali tante volte si è rivolto, sui quali tanto puntava e tanto contava. “Io credo in voi giovani - diceva nel novembre 1978 - Se non credessi in voi dovrei disperare dell’avvenire della Patria, perché non siamo più noi che rappresentiamo l’avvenire della Patria, siete voi giovani che con la vostra libertà, con il vostro entusiasmo lo rappresentate. Non badate ai miei capelli bianchi, ascoltate il mio animo che è giovane come il vostro. Voi non avete bisogno di prediche, voi avete bisogno di esempi, esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”.