È uno che la Storia e la Storia contemporanea dell’Italia la conosce davvero. Oltre a insegnare all’Università ha scritto moltissimi libri proprio sulla storia della prima metà del Novecento. Giovanni De Luna riflette con Collettiva sull’Italia di oggi.

A suo giudizio, professore, ci sono parallelismi tra l’Italia di oggi e quella del passato?

Sì, trovo vi siano molte analogie con gli anni Cinquanta del secolo scorso, con quella dimensione che veniva definita del clerico-fascismo. Era l’Italia che odiava la cultura, era l’Italia dell’allora ministro dell’Interno Scelba che definiva la cultura “culturame” proprio perché avvertiva nella cultura qualcosa di ostile, di antagonistico da combattere. Era l’epoca in cui l’allora ministro della pubblica istruzione Ermini inviò una circolare a tutte le scuole per dire che il 25 aprile del 1955 bisognava celebrare non la Liberazione, ma l’anniversario della nascita di Guglielmo Marconi. Era l’epoca in cui si cercava di eliminare la Resistenza dalla nostra religione civile. Era l’epoca in cui la stampa di destra si accaniva contro i partigiani definendoli “rubagalline”, irridendo i valori della Resistenza, era il momento in cui attraverso i film si celebrava la divisione Folgore. Ecco, io ho paura che oggi si riproponga quel clima e quella strategia.

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Non trova analogie, quindi, con il fascismo?

Il fascismo in quanto tale è un fenomeno storico che nacque sulla fine della prima guerra mondiale, elaborandone il mito del reducismo e della trincea. Soprattutto il fascismo del ventennio aveva come elemento importante l’uso della violenza che, per fortuna, oggi non vedo se non legata ad alcuni singoli episodi come l’assalto alla Cgil, oppure a Traini che a Macerata ha sparato contro i migranti in strada. Sono episodi sporadici, che non configurano ancora la violenza come una opzione fondante. Ripeto: vedo invece forti analogie con gli anni Cinquanta, anche nella dimensione sessuofobica che allora vide la nascita delle brigate anti-baci e la polizia andare nei locali o nei cinema a cogliere in flagranza i giovani che si baciavano.

Oggi, però, assistiamo a tentativo di limitare la libertà di informazione e al ministro Salvini che limita il diritto di sciopero...

È così. Mentre negli anni Cinquanta a giustificare tutto quell’ambaradan repressivo c'era la Guerra fredda, oggi la Guerra fredda non c'è più quindi i loro comportamenti sono francamente più gravi. Nel senso che hanno giurato su una Costituzione che è intrinsecamente antifascista: la Costituzione senza l’antifascismo viene amputata dalla sua parte progettuale più significativa, proprio perché i padri costituenti erano figli di quell’epoca e avevano vissuto il ventennio, si erano posti il problema di come evitare che il fascismo potesse tornare. Quindi l'antifascismo è totalmente connaturato sia ai valori principali della Costituzione, sia alla parte più legata alla forma di governo, quindi la scelta del proporzionale, il ridimensionamento del potere dell'esecutivo, l'attenzione alla bilancia dell'equilibrio dei poteri.

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Professore, ci sta dicendo che l’assetto istituzionale scritto in Costituzione, dalla scelta del parlamentarismo al bilanciamento dei poteri, deriva dalla decisione dei padri costituenti di mettere al sicuro l’assetto democratico del Paese?

Sì, sono tutte scelte che derivano dall'antifascismo. Certo, il presidenzialismo che vorrebbe Meloni va esattamente in senso contrario, poi certo se ne può anche discutere. Quello su cui non si può discutere è l'intolleranza verso Scurati. È l’espressione della voglia di rivincita che anima questi fascisti, ai margini per tanti anni e che adesso aspirano a una vendetta e rivincita. E questa volontà di rivincita si estrinseca – ad esempio – nell’occupare tutti gli spazi pubblici possibili senza toccare l'economia: sono molto furbi visto che quella è governata da Bruxelles. Mentre invece, sul terreno della toponomastica, sul terreno dell’uso pubblico della storia, sul terreno della riscrittura della Storia degli anni Settanta, si vuole affermare che le uniche vittime che valga la pena commemorare sono quelle fasciste. Ecco, questi sono i tentativi presenti oggi.

Professore, come interpreta l'affermazione del ministro Lollobrigida che in televisione ha detto che l'antifascismo ha provocato molti morti?

Quello che fa il ministro è un riferimento agli anni Settanta. Per loro i fascisti sono gli unici da ricordare, gli unici morti su cui vale la pena costruire una religione sociale. Non è così, se si vuole proprio dirla tutta a cominciare a sparare è stata la strage di Stato a Piazza Fontana del 12 dicembre 1969: da lì tutto è cominciato, sono cominciati quelli che poi verranno definiti i cosiddetti anni di piombo. E francamente a piazza Fontana di antifascisti non ce n’era nemmeno uno, se non tra le vittime. Chi ha sparato, chi ha messo le bombe sono stati i servizi segreti, sono stati gli apparati dello Stato deviati legati alla destra. Per fortuna poi gli anni Settanta sono stati anche anni di rinascita, non solo di morte e ammazzamenti: sono stati gli anni dello Statuto dei lavoratori, delle leggi e poi dei referendum sul divorzio e sull’aborto, della legge Basaglia e della chiusura dei manicomi, dell’istituzione del servizio sanitario nazionale. Sono stati anni di un rigoglio riformista che l’Italia non ha mai conosciuto nella sua storia. Lollobrigida di questo non parla. Insisto: c'è da parte loro un tentativo di rivincita dopo anni di emarginazione, c'è una volontà di riscrivere la nostra Storia. Soprattutto quella degli anni Settanta che è quella che a cui loro sono più legati, perché - per ragioni anagrafiche - è la loro Storia, è la Storia del Movimento sociale, del Fronte della gioventù, delle loro prime azioni politiche, della loro infanzia e adolescenza.

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Quanto è preoccupato o quanto non lo è, cioè che sbocco può avere tutto questo?

Quello che mi preoccupa – e molto - è queste cose andrebbero rintuzzate giorno per giorno, momento per momento e non c'è nessuno che lo faccia in maniera credibile. Quello che mi preoccupa è proprio l'assenza di un’opposizione credibile perché senza un'opposizione credibile, allora, il regime è dietro l'angolo.

Ma l’opposizione è solo quella politica o è anche quella sociale?

Certo, è anche sociale. Per esempio nei movimenti dei giovani che protestano in favore della Palestina c'è qualcosa: ci vedo non tanto l'antisemitismo, ma proprio l'insofferenza per lo stato di cose presenti. Percepisco sofferenza per gli equilibri politici che stanno governando questo Paese, il rifiuto dell’accomodamento, del compromesso, dell'accettazione e della subordinazione. Per me c’è una scintilla di protesta che può diventare qualcosa di significativo.