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Sono poco più di 52.209 le denunce di infortunio da Covid-19 sui luoghi di lavoro pervenute all'Inail fino al 31 agosto. Una cifra pari al 19,4% dei contagi nazionali comunicati dall’Istituto superiore di sanità alla stessa data. Di tutte le infezioni di origine professionale, il 71,3% ha colpito le donne, mentre l'età media di entrambi i generi si attesta sui 47 anni. A livello territoriale, otto denunce su dieci sono concentrate nel Nord Italia: in testa c’è la Lombardia, con il 36% delle denunce e il 42,6% dei 303 decessi nazionali.
“La cifra di 303 decessi è enorme, praticamente è pari a un terzo di tutti gli incidenti mortali sul lavoro che si registrano mediamente ogni anno in Italia”, commenta Silvino Candeloro, componente del collegio di presidenza Inca Cgil. Soprattutto se si considera il carattere “provvisorio” dei dati forniti dall'Inail e, stando al rapporto, la “cautela” raccomandata nel valutarli. Per questo il patronato auspica che dall'istituto “facciano tutto il lavoro necessario per fugare i dubbi e procedere al riconoscimento degli infortuni”.
Un passaggio necessario affinché si possa “agire sui casi di cui è certa l'origine professionale”. A questa condizione, a lavoratrici e lavoratori spetta innanzitutto un indennizzo temporaneo. In un secondo momento si verificherà la percentuale di danno provocato dalla malattia, valutando i postumi respiratori, cardiovascolari o cerebrali. Un aspetto, quest'ultimo, che il dirigente del patronato giudica “il più qualificante dell'attività di tutela, rispetto al quale l'Inail non fa alcuna menzione”. Eppure, sottolinea, tornare al lavoro “può essere complicato per chi è stato in rianimazione o in terapia intensiva per due o tre mesi”.
Per quanto riguarda le attività produttive, il rapporto segnala che Il 71,2% delle infezioni denunciate e il 23,3% dei casi mortali si concentra nel settore della sanità e dell’assistenza sociale (che comprende ospedali, case di cura e di riposo, istituti, cliniche, policlinici universitari, residenze per anziani e disabili). Un dato che, unito al settore degli organismi pubblici preposti alla sanità (Asl), porta all’80,2% la quota dei contagi e al 34% quella dei decessi avvenuti in ambito sanitario. Si tratta di un contesto in cui lavoratrici e lavoratori corrono un rischio specifico, derivante cioè dalle condizioni particolari dell'attività svolta. Ma c'è anche un rischio biologico aggravato che, pur comune a tutte le persone, ha un'incidenza maggiore su alcune in ragione della professione esercitata. Un rischio che, per Candeloro, “va comunque considerato nel riconoscimento dell'infortunio”. Rientrano in questi casi tutti i settori che prevedono molti contatti col pubblico.
In effetti, con “la graduale ripresa delle attività a partire dal mese di maggio”, il rapporto registra un incremento di contagi nei servizi di alloggio e ristorazione (passati dal 2,5% di marzo-maggio, al 4,3% di giugno-agosto, con il 5% solo ad agosto) o noleggio, agenzie di viaggio e servizi di supporto alle imprese (cresciute dal 4,3% del periodo marzo-maggio al 7,7% di giugno-agosto e al 13,7% nel solo mese di agosto). Una tendenza confermata anche se il focus dell'indagine si sposta dalle attività produttive alle categorie professionali. Dopo i tecnici della salute (39,7% delle denunce e 10,3% dei decessi), i contagi si sono diffusi soprattutto tra “impiegati amministrativi (11,5% dei decessi), addetti all’autotrasporto (6,3%), addetti alle vendite (2,8%), dipendenti nelle attività di ristorazione, addetti ai servizi di sicurezza, vigilanza e custodia (tutti con il 2,4% dei casi mortali denunciati)”.