È di pochi giorni fa la sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale, con la quale si dichiara l’illegittimità dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, laddove “non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”.

L’art. 18, infatti, mentre esclude i controlli uditivi, prescrive in ogni caso il controllo visivo dei colloqui con il coniuge: “I colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia” recita la disciplina.

La sentenza è un ottimo risultato, raggiunto anche grazie alla mobilitazione di molte associazioni e organizzazioni, compresa la Cgil. Ricordiamo, fra le altre, la recente iniziativa “Affettività e carcere” promossa proprio per chiedere l’approvazione di una norma che garantisse la piena esigibilità del diritto all’affettività per le persone ristrette, come stabilito anche da atti sovranazionali, quali le raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 1997.

In quella occasione si chiedeva che il nostro Paese si dotasse finalmente di una legge, come già accaduto in molti Stati europei e non solo, che garantisse la possibilità di usufruire di appositi spazi, sottratti al controllo audiovisivo del personale di custodia, all’interno dei quali la persona ristretta potesse trascorrere diverse ore in intimità con i propri affetti.

Più recentemente, lo scorso anno l’associazione Società della Ragione ha promosso un appello al riguardo, sottoscritto da molti giuristi, garanti, studiosi, cui anche la Cgil ha aderito.

Oggi finalmente questa sentenza rimuove un limite pesante: i legami affettivi e familiari sono un parametro su cui modellare il processo di individualizzazione della pena, a prescindere da ogni valutazione premiale. E il diritto all’affettività e alla sessualità deve essere riconosciuto in sé e per sé, proprio in quanto diritto, la cui negazione confligge pesantemente con il principio costituzionale dell’umanità della pena, con la sua funzione rieducativa, perché la pena non deve mai essere afflittiva e negare i bisogni primari delle persone. Le necessità affettive sono espressione del più ampio diritto alla salute.

Adesso il diritto è finalmente esigibile, e il parlamento deve adottare nel più breve tempo possibile una norma al riguardo, nel rispetto di quanto stabilito dalla sentenza della Corte, stanziando anche le risorse necessarie per garantire, insieme al personale necessario per soddisfare tutte le esigenze del carcere, i diritti e una vita dignitosa alle persone ristrette, troppo spesso costrette a trascorrere il periodo detentivo in spazi sovraffollati, angusti, fatiscenti, inadeguati, e senza possibilità reali di accesso a tutte quelle attività necessarie perché la pena risponda appieno al dettato costituzionale.

Le persone ristrette devono scontare le pene decise dai giudici, nel rispetto delle norme, che consistono nella privazione della libertà ma non essere ulteriormente afflittive, mai lesive in nessun modo della dignità personale. Il sovraffollamento, l’alto tasso di suicidi e di atti autolesionistici dicono che oggi non è così.

Per questo nel percorso tracciato con “La Via Maestra”, la Cgil sta organizzando un’iniziativa nazionale, con la partecipazione di studiosi ed esperti, che metta al centro i diritti delle persone ristrette: lavoro, salute, formazione, affetti, spazi dignitosi in cui vivere, in cui costruire il rientro a pieno titolo nella società delle persone libere.

Denise Amerini è responsabile dipendenze e carcere dell’area stato sociale e diritti della Cgil