Inverno 2017, fuori c'è la neve. In una delle soluzioni abitative emergenziali, le famose casette poi consegnate in pompa magna ai terremotati di Muccia, in provincia di Macerata, c'è un uomo con una gamba gonfia. È scivolato sul ghiaccio mentre lavorava. Fuori fa freddo. Lui resta lì per nove ore gettato in un angolo, in attesa di essere rispedito a casa, in Romania. Pochi mesi dopo, a qualche chilometro di distanza, nel nuovo campus dell'Università in costruzione a Camerino, un ragazzo marocchino viene cacciato dal cantiere. Non ha il permesso di soggiorno, vive e lavora alla giornata per mandare rimesse in Marocco a sua moglie e a suo figlio in fasce. Ha faticato tra quei bassi edifici aggrappati a una collina scoscesa per 12 ore al giorno, tutti i giorni. Lo ha fatto per tre mesi, da quando un albanese glielo proprose in un bar. Tre mesi di lavoro senza regole, e senza essere pagato un solo centesimo.

Sono solo due casi di sfruttamento del lavoro, forse i più eclatanti, tra i tanti scoperti dalla Fillea Cgil di Macerata, e che hanno portato a galla un sistema criminale molto diffuso nel cratere marchigiano del terremoto. Un sistema che oggi è sotto inchiesta, grazie a tre procedimenti giudiziari in corso. I processi investono società a vario titolo coinvolte negli appalti per la ricostruzione. In particolare per la realizzazione delle casette consegnate ai terremotati di Pieve Torina, Muccia, Visso e Ussita. Ma anche per la costruzione del nuovo studentato di Camerino. Dal 2017 a oggi il sindacato è riuscito a far emergere dall'illegalità oltre 130 operai.

Carte alla mano, quello che viene fuori è un articolato sistema piramidale in cui compaiono consorzi, imprese e cooperative a formare una rete che riguarderebbe quasi tutte le aree del cratere. L'inchiesta giudiziaria più avanzata al momento è proprio quella sui cantieri delle Sae. E le accuse sono pesanti: intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Ci sono già stati due rinvii a giudizio, l'inchiesta coinvolge la ditta Europa Srl con sede a Melegnano (Mi), che faceva parte del Consorzio Gips di Trento, che aveva un subappalto del Consorzio Arcale per la fornitura e messa in opera delle casette.

Tutto è iniziato al campo base di Pieve Torina, ci racconta Constantin Pascu, funzionario della Fillea maceratese: “Un operaio mi ha detto che c’era un uomo infortunato nel container. Questa persona non aveva preso un euro per il lavoro, non aveva un telefono e non parlava italiano. Mi ha spiegato che lo stavano per rimandare in Romania. Aveva la gamba gonfia, era scivolato alle 10 di mattina, ma quando l’ho incontrato erano già passate nove ore. Quindi l’ho portato in ospedale, dove gli hanno dato 15 giorni di prognosi. Poi gli abbiamo fornito un telefono e dei soldi per mangiare”. Dalla denuncia che ne è seguita è partita l'inchiesta in corso, che ha permesso di ricostruire il sistema di reclutamento dei lavoratori. Avveniva direttamente in Romania. “Gli operai ci dissero che a reclutarli erano la moglie e la figlia di un romeno che lavorava in uno dei cantieri con la promessa di guadagnare 50 euro al giorno - racconta Massimo De Luca, all'epoca segretario generale della Fillea -. Soldi che una volta arrivati in Italia diventano però molti di meno, o non venivano proprio consegnati”.

“C'era dietro un sistema complesso – spiega l'attuale segretario generale Fillea Matteo Ferretti –. Un'azienda italiana, che aveva un subappalto su un cantiere finanziato con i soldi pubblici della protezione civile, cercava attraverso una persona operai in Romania e li portava a lavorare qui. Un'articolazione diversa da quella di altri cantieri in cui un soggetto, che a ragione chiamiamo caporale, recuperava lavoratori fragili direttamente su questo territorio”. È il caso delle altre due inchieste avviate dall'autorità giudiziaria e che riguardano i lavoratori migranti (soprattutto egiziani) e italiani impegnati nella costruzione di altre casette, e anche del nuovo studentato dell'Università di Camerino (finanziato dalla Provincia di Trento, da quella di Bolzano e dal Tirolo ndr).

Qui l'azienda Elgi Srl impiegava lavoratori extracomunitari che risultavano residenti in Provincia di Fermo, che però venivano reclutati personalmente dai caporali. In realtà erano stati assunti da un'altra ditta, ma subito distaccati a Camerino. “Vivevano in un casolare abbandonato a una quarantina di chilometri di distanza, in condizioni terribili, senza acqua e senza elettricità. Per mangiare qualcosa cacciavano addirittura i fagiani”, racconta ancora Ferretti. Tra di loro c'era anche Mohammed (il nome è di fantasia), un marocchino che all'epoca non aveva il permesso di soggiorno. “Per farlo emergere dallo stallo in cui si trovava si è dovuto fidare completamente di noi - ci racconta Massimo De Luca –. È stato complicato, ma alla fine è andata bene”. Oggi Mohammed ha un permesso si soggiorno, lavora in una fabbrica di scarpe, e ha potuto riabbracciare sua moglie e suo figlio grazie al ricongiungimento famigliare. "Oltre a proteggere i lavoratori - racconta poi Ferretti -, abbiamo dovuto anche fare in modo che non ne pagassero le conseguenze le loro famiglie. Spesso il caporale in Italia, aveva un contatto nel Paese di origine, e faceva pressione affinché i lavoratori qui non parlassero con noi".    

Ma com’è stato possibile arrivare a questa situazione in una filiera come quella del cratere marchigiano, che è quasi completamente finanziato con fondi pubblici, e quindi dovrebbe essere più che controllata? In realtà, non è così difficile. Secondo l’accordo quadro per il lotto 2, quello delle casette firmato con il consorzio Arcale, ad esempio, non era possibile fare subappalti dei subappalti. Ma lo era invece costituire reti di impresa anche dopo aver ottenuto il subappalto, o subappaltare a cooperative. È da qui parte un ginepraio fatto di consorzi che hanno ottenuto un subappalto, composti a loro volta da cooperative, a loro volta composte da partite Iva. Per le reti d'impresa, nella notifica preliminare (il documento che contiene tutta la filiera dell’appalto ndr) compare però solo la capofila, le altre appaiono solo nella visura camerale sotto forma di partita Iva o codici fiscali. Le classiche scatole cinesi, insomma.
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“Il caporalato, da queste parti, è molto spesso filtrato attraverso questa giungla – ci spiega Bruno Pettinari, l'avvocato che cura gli interessi dei lavoratori per conto del sindacato -. Ed è un sistema molto difficile da ricostruire. Ci sono anche casi di reclutamento classico direttamente sul territorio, ma di solito sono le imprese a fare intermediazione. Il tutto è reso possibile dall'emergenza: i terremotati avevano bisogno di un tetto sulla testa, le istituzioni dovevano assolutamente dare risposte immediate. Le aziende hanno costruito le casette”. A pagare, in ogni caso, sono sempre i lavoratori, soprattutto i più fragili. Da queste parti vigeva una specie di tariffario al ribasso: “Ad esempio – racconta Daniel Taddei, segretario generale della Cgil maceratese – al lavoratore italiano veniva accordata una paga, a quello rumeno, che fa parte della Comunità europea, ne veniva accordata un'altra che era inferiore, ma comunque superiore a quella dell'egiziano, che invece aveva il problema del permesso di soggiorno. Fino ad arrivare al clandestino, il più fragile e ricattabile, che s'accontentava di un tozzo di pane”.

A breve, è tra l'altro prevista una nuova cascata di soldi pubblici su questo territorio, grazie al fondo complementare del Pnrr destinato al rilancio economico e sociale delle aree terremotate. Secondo la Regione, al cratere marchigiano sono destinati circa 100 milioni di euro. “La criminalità organizzata questo lo sa – conclude Taddei -. Già i fondi del post-sisma hanno fatto alzare le loro antenne, adesso questo rischio si moltiplica in maniera esponenziale”.