Giuseppe Pinelli, ferroviere, animatore del circolo Ponte della Ghisolfa e giovane staffetta nella Brigata Autonoma Franco, forse collegata alle Brigate Bruzzi Malatesta durante la Resistenza, muore nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 precipitando da una finestra della questura di Milano, dove era illegalmente trattenuto per accertamenti in seguito alla esplosione di una bomba nella sede milanese della Banca nazionale dell’agricoltura, in piazza Fontana.

La prima versione data dal questore Marcello Guida nella conferenza stampa convocata poco dopo la morte di Pinelli sarà quella del suicidio. La famiglia viene avvisata da alcuni giornalisti, quando Camilla Cederna, Giampaolo Pansa e Corrado Stajano, nel cuore della notte vanno a casa Pinelli. La moglie Licia chiama in questura, vuole sapere perché non l’hanno avvisata. “Non avevamo tempo”, è la risposta.

Il 27 dicembre 1969 Licia Rognini Pinelli denuncia il questore Marcello Guida, già funzionario fascista e direttore del confino di Ventotene, per diffamazione e il 24 giugno 1971 accusa il commissario Calabresi e tutte le persone presenti in questura la notte del 15 dicembre di omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata e abuso di autorità. Il 27 ottobre 1975 il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio archivia le denunce escludendo sia il suicidio che l’omicidio e motivando la morte come un “malore attivo”. Tutti gli indiziati saranno prosciolti.

Licia Pinelli trova la forza e il coraggio di affrontare tutto questo e di ribellarsi alle verità ufficiali. Con dignità inizia la sua battaglia per sapere non solo la verità sulla morte del marito, ma per difenderne la memoria. Nel 1982 sente il bisogno di raccontare quanto ha vissuto, di lasciare traccia di questo percorso. Da un lungo dialogo intervista con Piero Scaramucci nasce il libro Una storia quasi soltanto mia, ristampato nel 2009 da Feltrinelli.

Scaramucci scriverà:

Questa è la storia che Licia Pinelli mi raccontò all’inizio degli anni ottanta. Era rimasta appartata, quasi silenziosa per una decina d’anni, da quell’inverno del 1969, quando la bomba fece strage alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, suo marito Pino, ferroviere anarchico, precipitò da una finestra della questura e l’Italia scoprì che la democrazia era sotto attacco. Licia si era tenuta lontana dai riflettori concentrandosi in una tenace battaglia per ottenere giustizia dalla Giustizia. Non la ottenne. Dopo dieci anni Licia fece forza sul suo severo riserbo e si decise a raccontare di sé e di quel che era successo. Scelse lei stessa di parlare e mi chiese di intervistarla. Non fu un percorso facile, per Licia fu come reimparare a parlare e a guardare dentro se stessa dopo anni di silenzio e autocensura. Oggi, a distanza di tanto tempo, questo racconto appare come un documento di rara verità, chi vorrà scrivere la storia di quegli anni durissimi non ne potrà prescindere.

Non raggiungere la verità giudiziaria è una sconfitta dello Stato - affermava Licia  Pinelli - È lo Stato che ha perso appunto perché non ha saputo colpire chi ha sbagliato. Perché in un modo o nell’altro, voglio dire direttamente o indirettamente, Pino è stato ucciso.  (…) Non è una questione di vincere o di perdere: semplicemente uno Stato che non ha il coraggio di riconoscere la verità è uno Stato che ha perduto, uno Stato che non esiste”.

“La Repubblica è stata più forte degli attacchi contro il popolo italiano - diceva nel  dicembre del 2019 a Milano il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, primo nella storia del nostro Paese a partecipare alle commemorazioni della strage di Piazza Fontana - i tentativi sanguinari di sottrarre al popolo la sua sovranità sono falliti. Immersi in pieno nella storia d’Italia, di cui l’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura rappresenta una pagina indelebile, affermiamo il dovere del rispetto di una memoria collettiva, in una vicenda di cui si conoscono origini e responsabilità. Disinvolte manipolazioni strumentali del passato, persistenti riscritture di avvenimenti, tentazioni revisioniste alimentano interpretazioni oscure entro le quali si pretende di attingere versioni a uso settario, nel tentativo di convalidare, a posteriori, scelte di schieramento, opinioni di ieri”.

“Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia”, aggiungeva il presidente dopo aver incontrato a Palazzo Marino le vedove di Giuseppe Pinelli, Licia (con le due figlie Silvia e Claudia), e del commissario Luigi Calabresi, Gemma. "Il tempo non sempre passa invano e l’impossibile diventa possibile. E ogni volta mi commuove”. Con queste parole, Mario Calabresi, giornalista, ex direttore di Repubblica e figlio del com9missario Luigi Calabresi, assassinato nel 1972, mostrava su Instagram e Facebook la foto dell’incontro tra la madre Gemma e  Licia. E per un attimo l’Italia sembrava riappacificarsi con se stessa.